Salman Rushdie e la retorica islamica dell’Islamofobia
Dopo oltre cinque mesi di silenzio dall’attentato che avrebbe potuto farlo tacere per sempre, Salman Rushdie è ritornato all’attualità concedendo un’intervista al New Yorker. Un’intervista che ha avuto stranamente poco seguito negli Stati Uniti, impastati di wokismo e persino in Europa, patria dei diritti dell’uomo.
Così l’ultimo attentato subito dallo scrittore nello scorso agosto è passato quasi inosservato e non ha determinato l’emozione che aveva invece suscitato la “fatwa” emessa dall’ayatollah Komeiny nel lontano 1988. Sembra quasi che l’opinione pubblica e i media stessi si siano abituati all’inaccettabile, come se il terrorismo di matrice islamica sia entrato ormai nel costume del tempo, alla stregua di una fatalità che non si può contrastare, un flagello con cui bisogna imparare a convivere, anche perché questo Occidente non ha le risorse spirituali necessarie né quelle intellettuali e neanche la stessa volontà politica di indicare chiaramente il nemico.
Rushdie nell’intervista spiega di non riuscire più a scrivere, di essere come in una camera oscura a dimostrazione del fatto che il giovane terrorista musulmano che aveva cercato di ucciderlo sia quasi riuscito a farlo tacere per sempre, uccidendo la sua penna insieme all’uomo. Lo scrittore viene ritratto con un paio di occhiali con un vetro nero per nascondere un occhio ormai morto, a rappresentare un altro simbolo colpito dall’attentatore: quello di vedere la realtà di un certo Islam. Alla fine, la retorica islamica dell’Islamofobia sbandierata al mondo ha dato i suoi frutti. Ha chiuso il discorso, vietato il dibattito, assimilato ogni critica all’Islam e alle sue degenerazioni ad una forma di razzismo e il mondo mediatico/politico è caduto nella trappola.
A nessuno è mai venuto in mente di assimilare il cristianesimo ad una razza e, a ben osservare, la stessa cristanofobia sembra ben protetta se osserviamo le molte azioni giudiziarie intentate con la scusa della difesa della laicità, a dimostrazione che la società contemporanea non ha ancora identificato quali siano le vere minacce che pesano su questa sacrosanta laicità.
L’Islam rappresenta un sistema religioso, giuridico e politico che si è sviluppato in molti continenti ed ha interessato popoli diversi, asiatici, mediorientali, arabi, africani ed europei. Fare della critica all’Islam una forma di razzismo è pura stupidità e significa confondere i musulmani che hanno diritto al rispetto, come un tutt’uno con gli islamici; è una debolezza di spirito.
Vero è che la nostra epoca, avvelenata dalle scorie del marxismo non è più quella del pensiero dotto e della finezza delle analisi. È un mondo che vede la società in opposizione tra dominanti e dominati, tra sfruttatori e sfruttati, riducendo la vita sociale ad una grande confusione di lotte inesplicabili.
La sinistra e l’estrema sinistra, hanno creduto di ritrovare nel mondo musulmano un proletariato di sostituzione, un motivo politico da sfruttare. Hanno così abbandonato il proletariato locale alla sua sorte quando questo ha perso il suo anelito rivoluzionario.
Perché ciò che muove il marxismo non è la preoccupazione caritatevole verso il povero e il misero, ma lo sfruttamento di una forza di protesta per poter distruggere la società e creare così un uomo e un mondo nuovi. Alla stessa stregua, la sollecitudine della sinistra filo islamica non è assolutamente un malinteso umanesimo ma soltanto utilitarismo rivoluzionario.
Il peggio è che anche i cantori in versione liberale del multiculturalismo sono caduti nella trappola semantica ed oggi sono nell’incapacità di riconoscere di essere confrontati ad uno scontro di civiltà. Uno scontro che è iniziato nel VII secolo con l’espansionismo arabo e la colonizzazione dell’impero bizantino. Niente è cambiato: l’Occidente rifiuta di vederlo e non ha più l’energia spirituale ed intellettuale per resistergli, anzi mette alla berlina chiunque osi contrastare l’egemonia del pensiero unico.
Per la cronaca oggi Salman Rushdie ha pubblicato un nuovo romanzo, “Victory city”, che suona quasi come una forma di vittoria contro chi tace davanti al male, di fronte all’inaccettabile, di fronte ai travestimenti della Storia e alle bugie che la libertà ha tacitato e, metaforicamente, contro chi vorrebbe farlo tacere per sempre.
Eugenio Preta