Economia, Covid e Maastricht o la corsa verso l’ignoto
All’inizio della costruzione europea c’era una condivisione tra le “elites” e l’opinione pubblica. Sono gli anni ’50 e fino ai ’90, l’aspirazione di un’Europa unita e solidale non manifesta alcuna contestazione popolare. Solo agli inizi degli anni 2000 comincia una lenta ma inesorabile politicizzazione del dibattito, che culmina con la fine di quel consenso.
Quando il cittadino viene consultato con un Referendum popolare sulla proposta del trattato di Maastricht, accettato timidamente da molti Stati membri ma bocciato dalla Danimarca, la questione europea entra nel dibattito dell’attualità e a questo punto cominciano le polemiche.
Le contestazioni aumentano in maniera massiccia nel 2005 in occasione del referendum sul progetto di Costituzione Europea, studiato dalla Convenzione sull’avvenire dell’Europa, bocciato inesorabilmente da Francia e dai Paesi Bassi. Critiche che si reiterano in occasione del referendum per l’approvazione del Trattato di Lisbona, prima bocciato dall’Irlanda e poi approvato col ricorso al marchingegno del voto parlamentare.
Si manifestano così le prime crepe e nel 2OO8/2009, quando esplode la crisi economica, la piaga della disoccupazione e le conseguenze politiche che sottolineano il malessere democratico, la fiducia nell’Unione tocca soglie estremamente basse. Una crisi democratica che viene sottovalutata invece che essere affrontata con urgenza.
Così l’Europa di Maastricht è stata una corsa destinata al fallimento. Sono passati 25 anni ormai da quando i Soloni europei avevano creduto di aver imbroccato la strada giusta per la costruzione di un’Europa Politica, nel segno del grande impero occidentale. Errore che si è rivelato colossale e di cui tutti ne paghiamo oggi le conseguenze.
Finita l’epoca degli eserciti, la Germania si era impegnata a condurre una guerra economica senza respiro verso i suoi vicini, culminata proprio con il Trattato di Maastricht che ha avuto come unico vero effetto quello di sottomettere tutto il continente al servizio dell’industria tedesca.
Oggi lo scopriamo: Maastricht ci ma messi tutti sotto l’egida delle nevrosi masochiste e della valenza economica di un Paese traumatizzato dalle guerre che aveva deciso nel corso dell’ultimo secolo.
Maastricht ha costituito il punto di partenza della fuga in avanti della costruzione europea diventata una macchina post democratica scollegata dai popoli che compongono l’Unione.
Da allora siamo passati dalla padella alla brace. L’adozione dei tre pilastri su cui posava la dottrina del trattati di Maastricht: una Comunità europea; una politica esteriore e di sicurezza comune e una cooperazione in materia di giustizia e di affari interni, ha costituito soltanto il preludio di un’integrazione intrapresa a marce forzate: entrata in vigore della terza fase dell’unione economica e monetaria del ’99, firma del trattato di Nizza del 2001 e, in cauda venenum, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona approvato per via parlamentare dopo che Paesi fondatori come Francia e Olanda avevano bocciato per voto popolare il referendum per un trattato costituzionale europeo.
Arrivando all’avvio di una moneta unica, Lisbona dotava implicitamente l’Unione di personalità giuridica esautorando gli Stati membri da un gran numero di loro sovranità tradizionali.
Nel ’92, i tecnocrati di Bruxelles avevano annunciato che l’euro sarebbe stata la moneta che avrebbe determinato un periodo di sicurezza economica, che avrebbe esorcizzato l’Europa dei vecchi demoni guerrieri e nazionalisti anticipando una crescita economica continua, la piena occupazione e una serie di regole virtuose per la concorrenza. Purtroppo la realtà è stata ben diversa da come veniva dipinta dai Soloni della moneta unica e di Maastricht: l’Europa è più divisa di quanto non lo fosse stata negli anni ’50, l’euro non è riuscito a sostituire il dollaro come moneta di riserva, l’economia della zona euro corre a velocità differenti, lo sviluppo è fermo ad un punto morto, il debito pubblico è fuori controllo, il continente è letteralmente invaso d un’immigrazione di massa che non può permettersi e non possiede più mezzi per fare intendere la sua voce in tema di politica internazionale e come se tutto questo non bastasse, una pandemia che, fronteggiata con misure contraddittorie in seno a Stati di una stessa Unione, ha messo in rilievo il fallimento del grande mercato unico, di Schengen di questa Europa.
Scacco matto su tutta la linea, ma tutti sono più o meno d’accordo a raccontarsi che l’Unione è in uno stato di stallo. Quelli che continuano a difendere la moneta unica lo fanno, nuove cassandre, minacciando scenari ancora più catastrofici nel caso di abbandono dell’euro: una dichiarazione d’impotenza implicita.
La Repubblica federale tedesca, principale beneficiario della moneta unica (che non è altro che un “super marco”), comincia a mostrare la sua stanchezza con una moneta sottovalutata rispetto al dollaro nonostante però il cambio si faccia quasi in parità. Oggi nessuno Stato membro può dirsi soddisfatto dall’euro. La ragione è semplice: l’Unione europea non è mai stata un insieme politico omogeneo ed unitario, né lo sarà mai. Le resterebbe ormai una sola possibilità: trasformarsi profondamente o scomparire.
Una riforma, ormai necessaria, che deve passare da una trasformazione a 360° del progetto originale di costruzione europea che deve configurarsi come un vero regime parlamentare, con un governo eletto dai popoli e responsabile davanti ad un parlamento di eletti, con un corollario necessario: l’istituzione di un sistema di identificazione e di separazione del potere legislativo, esecutivo e giudiziario insieme, ovviamente, alla ridefinizione consapevole e meditata dei rapporti tra l’Unione e gli Stati membri.
Eugenio Preta