Il confronto tra la Corte di giustizia UE e la Corte costituzionale polacca apre una falla preoccupante nel futuro dell’Unione
Ursula von der Leyen ha sicuramente dimenticato l’Atto unico che ha riformato, nel luglio del 1987, i trattati istitutivi dell’antica CECA (divenuta l’attuale Unione Europea) e soprattutto ha dimenticato il senso del termine ”sussidiarietà“, legittimato dal trattato di Lisbona del 2007. Un termine magico che avrebbe dovuto impedire ogni travalicazione dei poteri istituzionali europei nell’ambito delle sovranità nazionali e fungere da principio regolatore per l’esercizio delle competenze non esclusive dell’Unione.
Il principio di sussidiarietà esclude infatti l’intervento dell’Unione quando una materia può essere regolata in maniera più efficace dagli Stati membri e legittima l’azione dell’Unione soltanto quando l’intervento dello Stato viene ritenuto meno efficace di quello europeo. Un termine, alla fine, studiato per far digerire quello che sarebbe divenuto l’attuale regime burocratico europeo.
Ma cosa è successo oggi?
La Corte costituzionale polacca ha ritenuto che alcuni articoli dei trattati istitutivi non siano compatibili con la Costituzione del Paese: in chiaro il tribunale Costituzionale polacco non riconosce l’autorità giudiziaria dell’Unione in materia di Stato di diritto: apriti cielo!
Intervenendo a Strasburgo, la signora Ursula von der Leyen ha voluto sottolineare il primato del diritto comunitario anche sulle Costituzioni nazionali e ricordato che le decisioni della Corte di giustizia dell’UE si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, compresi i tribunali nazionali. La presidente dell’esecutivo ha assicurato di voler utilizzare tutti i poteri garantiti dai trattati per far rispettare questo “primato”: una minaccia molto forte che però finge di dimenticare che anche la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe, qualche tempo fa, aveva fatto le stesse riflessioni senza peraltro che nessuno avesse mai osato proporre delle sanzioni contro uno Stato così forte come la Germania e che la Gran Bretagna, insofferente alle privazioni di sovranità, alla fine della storia aveva addirittura abbandonato l’Unione europea.
Una minaccia palese quella di Bruxelles contro la Polonia e le sue spinte scissioniste, che si traduce oggi come un ricatto sull’approvazione del piano di rilancio economico presentato dal governo polacco che prevede 23 miliardi di sovvenzioni europee e 34 miliardi di prestiti, che la Commissione non ha ancora approvato, adducendo come scusante la sua inquietudine circa il rispetto dello Stato di diritto in Polonia. Una questione questa dello Stato di diritto che si è accentuata con l’arrivo al potere di Legge e Giustizia, il partito conservatore che si è dimostrato ostile alla politica immigrazionista dell’Unione europea e che oggi, come l’Ungheria di Orban, viene additato come l’alunno discolo e recalcitrante di questa Europa.
Sulla questione dello Stato di diritto, Polonia ed Unione Europea si sono sfidate per interposti tribunali. Il primo attacco è arrivato dalla Corte di giustizia europea che ha chiesto la sospensione immediata della Camera disciplinare della Corte suprema polacca che, secondo i giudici europei, non sarebbe conforme alle norme di diritto dell’Unione. In tutta risposta Varsavia ha ribadito come le decisioni della Corte europea sulla camera disciplinare non siano compatibili con la Costituzione nazionale.
Uno scontro che rappresenta l’ennesimo capitolo del lungo litigio tra Varsavia e Bruxelles a proposito delle riforme giudiziarie introdotte dal partito conservatore al potere il cui presidente Kaczynski ora dichiara che i polacchi non hanno bisogno di fondi europei, immaginando che, alla fine, l’Unione e Polonia riusciranno a trovare un compromesso. Resta il fatto che, nonostante le rassicurazioni del primo ministro polacco Morawiecki in visita a Strasburgo, si delinea la minaccia di un ritiro della Polonia, sul modello consolidato della passata Brexit.
In verità l’Unione europea vede nella contestazione degli standard europei e delle stesse norme comuni la rimessa in causa della sua stessa esistenza e difficilmente, a questo punto, potrà trovare un compromesso: invertire la gerarchia delle norme significherebbe smantellare il sistema instaurato dai redattori del trattato di Maastricht prima e di quello di Lisbona poi, e dare ragione ai cosiddetti sovranisti.
Per tanto tempo i detentori della mondializzazione felice li hanno disprezzati, stigmatizzando le idee passate di moda e quei politici che flirtavano con quelle frange ritenute estreme che ancora osavano criticare la sottomissione alle regole di trattati europei, ritenuti inattaccabili, e alle decisioni di organismi autoreferenti creati per applicare questi trattati imposti ai popoli senza consultare i parlamenti nazionali.
Imporre questi trattati europei agli Stati ed ai popoli è stata una decisione della classe politica nazionale che è addirittura riuscita a riformare la propria costituzione per uniformarla alle regole di Maastricht. Noi siamo riusciti persino ad includere un “titolo VI” (art.114) con tre articoli che rendono esplicita la cessione di sovranità all’Unione europea.
Ormai però la legge dei sondaggi, vero cult della politica elettorale contemporanea, impone la sua visione e sollecita, d’ora in avanti, i futuri candidati ad iscrivere e a ben sottolineare nel loro programma elettorale, misure dirette a tutelare l’interesse nazionale.
Così facendo certamente non diventeranno tutti “sovranisti“, ma piuttosto inviteranno implicitamente gli elettori ad analizzare il sistema europeo e le tecniche di governo che comporta, mettendo finalmente in dubbio la certezza che ritiene queste tecniche irreversibili e fatte esclusivamente, e nonostante i risultati ormai sotto gli occhi di tutti, nell’interesse dei cittadini e del progresso. Sarebbe un incredibile sconvolgimento del dogma europeo corrente.
Eugenio Preta