Le lingue regionali o minoritarie
Sicuramente l’avvicinarsi di un evento politico (in questo caso le prossime elezioni regionali in Francia) potrebbe essere utile per ritornare al dibattito sulle lingue regionali o, come ormai prassi del discorso istituzionale europeo, sulle lingue dette minoritarie.
Un tematica che tenta di sfuggire ai tentacoli di quel politically correct tanto in auge che vuole comprendere tutto in un discorso globalizzante, anche le espressioni e i modi di dire autoctoni e intraducibili. Un’omogeneizzazione molto difficile da mettere in pratica.
Voglio ricordare un episodio di tanti anni fa quando in Commissione parlamentare europea, nel corso della discussione della direttiva sul riconoscimento delle lingue minoritarie, Marco Pannella, nel suo stile provocatorio, riuscì a fare intervenire un oratore sardo che, appena aperto il microfono, cominciò ad esprimersi in Campidanese, provocando non solo un silenzio imbarazzante nell’aula, ma soprattutto il black out del servizio degli interpreti, chiamati a tradurre dal finlandese piuttosto che dall’olandese ma incapaci di decifrare quello strano idioma. Pannella intervenne stigmatizzando la mancanza delle istituzioni europee che non prevedono traduzioni di lingue considerate non ufficiali.
La tematica delle lingue minoritarie è un argomento molto stimolante. Per inciso ricordiamo che la conseguente direttiva europea approvava l’elenco delle lingue minoritarie o regionali, ma ne lasciava agli Stati membri l’attuazione pratica e che, tra l’occitano, l’alsaziano il catalano o il basco ed anche tra il lombardo il ladino e lo stesso sardo, non si trovava traccia del siciliano.
Una dimenticanza del legislatore oppure, meglio, la strafottenza dei tanti eletti siciliani che hanno sempre occupato posizioni di vertice e di ministri ma che non si sono mai impegnati a tutelare l’interesse e le esigenze della gente che li legittima a rappresentarla .
Se si dovesse credere ad Esopo, ad esempio, la lingua sarebbe “la migliore e la peggiore delle cose”. In Italia, prevale la seconda ipotesi: a livello di legislazione esiste una grande confusione. Dobbiamo sicuramente rallegrarci che lo Stato si prenda cura dei patrimoni materiali e immateriali del Paese ma non riusciamo a capire perché trascuri il nostro patrimonio linguistico, anche se motivi di bilancio potrebbero non esserne anodini. Esserne estranei.
Viviamo un periodo economicamente sofferente e certo ogni tutela ha un costo. Questo vale per le strade o per la cura dei monumenti, ma a maggior ragione dovrebbe esserlo per una lingua, specialmente se parlata da milioni di cittadini, considerando peraltro che il comparto linguistico regionale potrebbe creare un nuovo mercato e nuovi posti di lavoro, anche nel settore privato, nell’editoria, televisione, musica, radio, e nell’interpretariato specifico.
Non si deve negare l’apporto culturale delle lingue minoritarie che costituiscono un patrimonio incontestabile, ma non si possono mettere in conflitto con l’insegnamento della lingua italiana. La vera domanda, spesso volutamente sottintesa, sarebbe quella di sapere se il riconoscimento ufficiale di una lingua regionale (o minoritaria) possa in qualche modo attentare all’Unita nazionale e, in modo più palese, favorire direttamente le esistenti istanze di separatismo o di indipendenza.
Eugenio Preta