Il rock (poco ma buono) contro la quarantena
Se il confinamento ha obbligato numerosi artisti a barricarsi dentro casa qualcuno, come il testardo irlandese Van Morrison, ha preferito rispondere all’isolamento producendo e pubblicando tre pezzi, un vero grido di protesta contro la quarantena imposta dalle autorità: Born to Be Free (Nato per essere libero), As I Walked Out (Quando esco fuori), No More Lockdown (Basta confinamento).
Come se la provocazione musicale non bastasse, Van Morrison ha invitato Eric Clapton per fare scacco matto affidandogli di interpretare Stand & Deliver, una vera bomba musicale che sfida le cronache proprio perché Eric Clapton sembra essere stato il solo artista di una certa importanza, ad aver denunziato l’imbottigliamento passivo della gente in generale e quello degli artisti in particolare.
Del resto, non sarebbe la prima volta che Eric Clapton soprannominato “slowhand” per lo straordinario tocco nel suonare la chitarra, pesti nel torbido per attirarsi le ire dei media allineati al politically correct, come era stato già confermato in “White Riot”, il film uscito poco prima della pandemia, in cui si ricorda che il movimento Rock Against Racism fu creato nel ‘76, proprio contro Eric Clapton reo di aver denunciato durante un suo concerto a Birmingham i futuri problemi dell’immigrazione di massa.
Quella sera il re della Fender aveva ceduto la sua flemma britannica alla rabbia gallese, quando dal palco invitava a votare senza tentennamenti per Enoch Powell, l’allora candidato conservatore alla carica di primo ministro le cui proposte sull’immigrazione ricalcavano pari pari quelle del Fronte nazionale francese di Jean Marie Le Pen, concludendo poi il concerto con un accorato “Manteniamo la Gran Bretagna Bianca”.
Qualche giorno dopo, fulminato dai media, chiese scusa attribuendo il tutto per aver esagerato con qualche drink in più la notte prima trascorsa in un pub, denunziando però, più la forma che il contenuto stesso delle sue dichiarazioni.
Dichiarazioni che “Slowhand” reitera due anni dopo quando, in un’intervista a Melody Maker, influente rivista musicale, ribadisce che bisognerebbe smetterla di essere ingiusti contro gli immigrati ingannati dalle autorità che presentano la Gran Bretagna come una terra promessa, un posto dove potranno inserirsi facilmente, pur sapendo che non esistono effettive possibilità di lavoro neanche per i locali e il razzismo comincia proprio quando si scatena una guerra fra poveri alla ricerca di un lavoro. Anche in quella occasione Clapton confesserà poi di aver alzato un pò il gomito, ma “In vino veritas” ci raccontavano gli antichi romani.
Oggi, a distanza di più di quaranta anni, diventato sicuramente più sobrio, il nostro amico non sembra però essersi pentito e decide di collaborare col suo vecchio amico Morrison registrando un pezzo che denunzia la vigliaccheria della gente che ha scelto di aver paura e deciso di continuare a portare le catene invece di tornare ad essere uomini liberi, ricordando di essere solo un cantante blues che vuole fare il suo mestiere in uno Stato sovrano e non in un regime poliziesco.
Per chi ascolterà il brano, leggerà tutto quello che il pensiero corrente vuole mettere dietro la lavagna: razzismo, rifiuto dell’autorità, insubordinazione alle regole, sovranismo e persino primatismo bianco. Tutto, forse proprio tutto, eccetto qualcosa a cui non si può mettere il bavaglio: quel blues straziante e sincopato che solo “slowhand” è stato sempre capace di regalarci al di là di illazioni giornalistiche e chiacchiere mediatiche telecomandate.
Eugenio Preta