Lo strano senso di democrazia che impone l’Unione europea stride con il concetto corrente di libertà
Il 12 novembre scorso la Commissione dell’Unione europea ha emanato una comunicazione con la quale intende indurre i Paesi dell’UE alla dottrina LGBTQI. Ma questa Unione Europea rappresenta effettivamente tutti gli Stati che la compongono?
E’ evidente l’intenzione della Commissione di introdurre il reato di “omofobia” nella legislazione europea che, ricordiamolo, è diventata diritto primario degli Stati europei e che alcuni Paesi “diligenti” come ad esempio l’Italia, sono riusciti ad iscrivere, senza peraltro osservarne la procedura essenziale, persino tra le norme costituzionali.
Proseguendo nella sua accelerazione verso l’ufficializzazione istituzionale delle filosofie LGBTQI, l’Esecutivo europeo propugna che ogni Stato membro riconosca persino i “matrimoni” omosex celebrati in altri Stati europei e lo status di omogenitori riconosciuti in altri ordinamenti giuridici e che si adegui a combattere gli “stereotipi di genere” che hanno origine negli istituti scolastici.
Entrando poi a gamba tesa, l’Esecutivo ha manifestato di proporre al prossimo Consiglio europeo del 19 novembre l’assegnazione di finanziamenti specifici alle iniziative LGBT, tra cui una quota del tanto contrastato Recovery Fund, che si credeva fosse stato istituito esclusivamente per far fronte all’attuale emergenza sanitaria per Covid.
La Commissione europea impone quindi la clausola dell’opinabile rispetto dello Stato di diritto, alla fruizione dei fondi di bilancio decisi dagli Stati membri. Il diavolo ha fatto le pentole ma non ne ha previsto però i coperchi perché Polonia ed Ungheria, gli alunni più discoli, hanno annunciato che si opporranno ad ogni clausola di condizionabilità tra i fondi previsti dal Bilancio di funzionamento pluriennale e la verifica dello “Stato di Diritto” che ormai si deve leggere chiaramente come l’imposizione di particolari privilegi alle organizzazioni LGBTQI.
I fatti di attualità politica ci narrano di una serie di proposte presentate dal Parlamento ungherese al fine di tutelare il matrimonio di un uomo e una donna e di proteggere tutti i bambini “fornendo loro un educazione e garantendo lo sviluppo equilibrato del bambino secondo il suo genere alla nascita” per assicurare un’educazione basata sull’identità costituzionale e sui valori della cultura cristiana ungherese.
Ma Polonia ed Ungheria non saranno i soli Paesi membri a porre il veto contro le regole che violano i Trattati europei e le sovranità nazionali (oltre che la scienza e la ragione). Anche in Olanda, ad esempio, si è aperta una crisi di governo con la richiesta di dimissioni e una polemica interna alla maggioranza perché le scuole cristiane e protestanti del Paese hanno richiesto alle famiglie dei propri alunni di certificare le proprie convinzioni sulla sessualità biologica e naturale e confermare la propria contrarietà alla ideologia LGBTQI, includendosi quindi tra gli Stati recalcitranti alle imposizioni di Bruxelles.
La prossima riunione del Consiglio Europeo del 19 novembre si annunzia perciò perlomeno “frizzante”, a dimostrazione dell’esistenza inequivocabile ormai di due Europe, di un’alleanza di Stati che vogliono restare radicalmente sovrani da una parte e di un Élite multipolar che inizia già a scricchiolare dall’altra, due concezioni filosofiche che fatalmente si fronteggiano ma che così allontanano sempre di più l’idea stessa di Unione.
Eugenio Preta