Domenico Savio: una chiusura tra leggi economiche e la necessità di conservare la memoria di una Messina che scompare
“Desperado”, una vecchia ballata degli Eagles, gruppo rock americano, parla di libertà personale e di smarrimento chiedendosi alla fine: “ci sarà qualcosa che rimane?” E’ quel che accade a Messina e diventa difficile rispondere a Glenn Frey & company, perché i riferimenti culturali, i valori etici, ma anche quelli semplicemente materiali della nostra città e della nostra educazione, via via si stanno perdendo.
Oggi, qualcuno ricorderà la vicenda dello storico oratorio dei Salesiani a Taormina che ha chiuso i battenti nell’ottobre del 2015 dopo 104 anni di attività, anche in quel caso, i salesiani non riuscivano più ad “occuparsi” dei giovani e delle loro anime. In previsione di quella chiusura però il Consiglio comunale di Taormina, temendo un cambio di destinazione d’uso dei locali, si era premunito opponendo un vincolo sui beni ubicati nella salita Acropoli. A pensare male…
I Salesiani presentarono un ricorso ma non hanno continuato la procedura ed oggi il Comune di Taormina ha catalogato definitivamente la questione. E’ vero, stiamo vivendo un momento drammatico della nostra storia civile. I valori che credevamo ormai ben radicati nella nostra società contemporanea, pur se consolidati nel corso degli anni, oggi vacillano e tutto sembra prendere una nuova dimensione. Ma qui evitiamo la scontata retorica del come eravamo, la dicotomia tra modernità e conservazione, i riferimenti a come si stia affermando, in ogni campo,un “pensiero unico“ subdolo, destabilizzante, pericoloso e torniamo ai fatti: Il Rettore Maggiore col consenso del suo Consiglio Generale ha decretato la chiusura canonica della Comunità salesiana “San Domenico Savio” di Messina, e la restituzione dell’opera all’Arcidiocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela.
Una notizia che ha lasciato attoniti quei messinesi che si sono formati scolasticamente in quell’istituto, ma anche quelli che frequentavano gli allievi, i compagni dell’oratorio (Immacolata, Domenico Savio, Don Bosco) dove si svolgevano campionati di calcio, e si giocava in letizia dopo le ore del dovere quotidiano. Al momento si rincorrono informazioni e smentite sui social più attenti alle vicende cittadine, ma la chiusura del Domenico Savio e del suo oratorio – nonostante la smentita della cooperativa che gestisce da qualche anno l’Istituto – aggiunge tristezza alle condizioni di una città che perde giorno dopo giorno i suoi riferimenti culturali, storici e civili.
Il rettore salesiano riporta l’attenzione, come aveva fatto Bergoglio, sulle crisi materiali della società contemporanea, quella economica in primis, poi ha ricordato la mancanza di vocazioni. Per noi, gente ormai matura ma distratta, ogni cosa ha un significato: può rappresentare un’immagine, un valore o un luogo fisico, in questo caso un Istituto cattolico dove abbiamo appreso insegnamenti che ciascuno di noi, figlio di quella realtà formativa, ha potuto poi utilizzare per affrontare la vita e superare i momenti di tristezza e di sconforto.
Mi ritornano in mente le messe ascoltate prima dell’inizio delle lezioni, la partite di calcio con un pallone nero di gomma durissima, la partite “totali” di pallingiro, i rudimenti del sapere che ho iniziato (e quanti come me) con Don Varagona, poi con Don Barbera, con Don Riggi, Don Mileti e infine con Don Rizzo (e mi scuso per tutti quelli che non menziono).
Non certo l’educazione sentimentale materiale di Flaubert, ma quella quotidiana delle piccole cose, quella cristiana del nostro essere persone, scolari, giovani che attraverso un insegnamento di qualità ricevuto dagli ideali di Don Bosco, ci ha consentito di diventare uomini, poi cittadini consapevoli. Ed ora, come in un famoso editto napoleonico, anche la speranza, la memoria del nostro passato, fugge, con la fine dell’Istituto.
Sarà quel che sarà, verosimilmente il Domenico Savio avrà la stessa sorte dello storico edificio dei Gesuiti di Piazza Cairoli: la rincorsa ad un modernismo (economico) che supera, purtroppo, la necessità di sostenere una funzione educativa importante. Ci viene da chiederci se non sarebbe il caso, piuttosto che parlare di beni saziabili e di bisogni materiali, se non sia il caso di renderci conto della confusione che invade la Chiesa odierna per la mancanza di un insegnamento chiaro ma anche per il ricercato tentativo di un suo coinvolgimento, improprio, nel godimento dei beni temporali.
La chiusura del Domenico Savio non comprende soltanto difficoltà operative, ma problemi strutturali, legati al tipo di antropologia che il pensiero unico sta imponendo con l’offuscamento della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione della identità personale in un contesto plurale e frammentato, la difficoltà di dialogo tra le generazioni e con la separazione tra intelligenza e affettività come tra obblighi di ricavo economico, leggi dei consumi e necessità di spiritualità e di conservazione della memoria.
Eugenio Preta