Un altro anno va via e la Sicilia sempre più mortificata
Nella monotonia di un giorno ormai sempre più uguale a quello trascorso, nell’attesa di una festività che ha perso i suoi connotati, ancora per i sentieri del mondo, itinerario di scoperte e nostalgie, dove un destino, ormai accettato, ci ha posto “amaro pane a rompere”: Viaggiamo ma non recuperiamo i luoghi della memoria che si perdono, tendono a mutare o forse si sono già cancellati.
È il momento tradizionale per interrogarsi sulla vita, cercare un nesso nelle cose, nell’immagine riflessa da uno specchio improbabile, nei contrasti delle vetrine, mentre il mondo scorre tutto intorno nei cambiamenti della giornata che diventa poi ora, prima attimo solidificato da un ricordo e, superati i momenti di riflessione profonda, tempo. Ma temporalità banale, ordinaria, quasi una paura che si è ora fermata proprio per aiutarti a comprendere. Paura del ritorno in un luogo che non esiste più nella realtà, un angolo rimasto nelle pieghe della memoria, nel risveglio dei sogni.
Chi non è siciliano, chi non vive giorno per giorno questa terra, anche in maniera ideale, come facciamo noi costretti nel nord lontano, non riuscirà a capire, non riuscirà a gustare il suono del ricordo che non è nostalgia nè rimpianto, ma rievocazione, incontro ideale con il genitore, con la terra, con i riti della terra, ormai stravolti purtroppo da una società moderna che tutto livella e da un sistema che annulla l’anima delle cose, nel cemento imperante, nei disordini delle città ormai artificiali, nel caos del traffico, nei colori delle automobili e nella confusione di valori e sentimenti che, al contrario, dovrebbero risultare irrinunciabili per una società troppo spesso distratta dall’effimero, dal consumismo che riduce il senso stesso dell’esistere.
Ci portiamo dentro perciò il lieve fastidio, la nostra sicilitudine, come sopportabile malessere che non fa poi tanto male ed inspiriamo i venti della stagione che cambia ma anche l’attualità che assilla l’Isola. Molti ci criticano, noi continuiamo a mettere in rilievo quello che non va, evidenziando quello che potrebbe invece essere fatto. Porgere la mano al nostro fratello in difficoltà, ancora più grave se vittima di ingiustizia in un paese del nord lontano, dove il suo destino gli ha posto amaro pane a rompere: un paese che si vuole “civile“ in un nord lontano che prima lo sfrutta, ma non appena la sua vitalità flette, lo isola, lo umilia e lo caccia via.
Gridare forte ai responsabili regionali di opporsi alla sciagurata proposta di concedere la sanatoria all’abusivismo imperante, proprio per impedire che altre migliaia di costruzioni illegali possano sorgere non laddove ce ne sia effettivamente bisogno, ma in riva al mare, nelle baie e nelle coste più belle del mondo.
Invocare imprenditorialità, iniziative concrete per impedire ai nostri giovani di continuare a partire, non per restare a carico della famiglia, ma per trovare appena fuori dall’uscio di casa l’occasione di lavoro e di crescita che la politica ancora non ha saputo offrire loro.
Autocarri frigoriferi partono pieni di zibibbo verso le terre del nord lontano. Lo Stretto è attraversato da camion carichi di rossi pomodori e da cisterne colme di olio che si lasciano alle spalle un’Isola troppo lontana, piena di tesori naturali, ma anche di teatri, templi, chiese, piazze e palazzi, gemme del tempo. Le banche del sud inviano al Nord i soldi dei risparmiatori, perchè da noi nessuno chiede di investire; gli incentivi agli industriali che investono nel sud sono utilizzati soprattutto dalle aziende del nord che, di ritorno, ci danno un pugno di posti di lavoro, sempre occupazione subalterna, ma si portano al Nord i profitti. Lo stesso avviene quando gli appalti nell’Isola sono vinti da imprese settentrionali che poi, al sud, lasciano soltanto lavori di subappalto.
E’ il mercato aperto a tutto.
Ribadiamo da tempo che dobbiamo valorizzare le ricchezze della terra e dell’ambiente, avvicinare le rive con un manufatto che consentirebbe di superare la strozzatura dei trasporti, il tempo dell’attraversamento, ma di fronte al mercato aperto, alla globalizzazione imperante, tutto questo può anche non bastare. Allora, invece dell’uva, invece dell’olio o del pomodoro, dovremmo vedere il nostro Stretto, Fatamorgana e Scilla e Cariddi, attraversato da autocarri sì, ma pieni di bottiglie di vino, di fusti di olio, di barattoli di salsa di pomodoro, di conserve, di succhi di frutta, così potremo rispondere, noi stessi, in prima persona alle sfide della globalizzazione, senza continuamente subirle.
L’industria del turismo poi, non può offrire soltanto tramonti e panorami: ha bisogno di strade, porti ed aeroporti, organizzazione, serietà e impegno. Perché allora lasciare fare sempre agli altri e non prenderci mai noi stessi carico delle nostre ricchezze? Perchè soltanto le aziende del Nord devono poter vendere i nostri prodotti, la nostra uva, il nostro olio, la nostra frutta, il nostro turismo?
Dopo gli interrogativi i pensieri e i disagi delle nostre contraddizioni, alla fine di una giornata di preoccupazioni e di lavoro, se ci fermiamo per un attimo e guardiamo lontano, vedremo ancora e sempre la nostra Isola. E dal suo mare riemergono ombre e nostalgie, ma anche le nostre stanchezze e la voglia di ritornare indietro, nel forziere delle nostre memorie e dei nostri affetti, alla fine di una giornata trascorsa con il rimorso – forse – di averla, in qualche modo, sciupata.
Eugenio Preta