Le celebrazioni per lo sbarco in Normandia: il giorno in cui siamo diventati americani
Da oltre 75 anni, come ruminanti, mastichiamo quella dolcezza importata dall’America, proprio dai G-men, i liberatori delle nostre città dai tedeschi a suon di bombe, ultima e più famosa: “little Boy”, la prima bomba atomica della storia dell’uomo, sganciata da Enola Gay – a guerra praticamente conclusa – su Hiroshima, che con Nagasaki detiene il triste primato per l’esagerato numero di vittime causate alle due sfortunate città giapponesi.
Da oltre 75 anni, siamo diventati americani. Anche se è assolutamente fuori luogo oggi, in pieno periodo di commemorazioni solenni, fare l’elogio solo del “chewing-gum”, suona veramente dissacrante in mezzo al concerto di omaggi e di onori agli eroi. Rendiamo onore senz’altro alla loro memoria: sarebbe irrispettoso negare l’omaggio postumo a quei giovani americani venuti a morire lontano dalle loro case e dalla loro patria, nel fango e nel fuoco delle foreste e delle spiagge europee in nome della pace e della libertà, tessendo in tal modo quella incancellabile tela di riconoscenza e rispetto tra i due continenti.
Ma la memoria non deve essere selettiva e, insieme all’omaggio ai soldati deceduti, è arrivato il momento di dirci chiaramente la verità: non sono gli americani ad averci liberato, è la verità che ci rende liberi. Quello che oggi commemoriamo con il D-Day, lo sbarco in Normandia e con le prime sconfitte delle truppe naziste, purtroppo suona anche come la fine del racconto tradizionale della lunga storia dell’Europa, la vigilia di una sconfitta di immani dimensioni, quella che ha stravolto la nostra antica civiltà. Dall’occupazione subita e dalla liberazione reclamata a suon di bombardamenti e di tradimenti, l’Europa si è piegata consenziente a una nuova tutela culturale, la stessa che la Boezia, a suo tempo, aveva chiamato schiavitù, schiavitù volontaria.
Questa stanchezza di noi stessi che spinge altri a prendersi cura del nostro destino, a ritenere questo nuovo mondo sempre migliore del nostro e, addirittura più bello del vecchio. Un nuovo mondo pronto a tradire paese e famiglia, ad abbandonare la casa paterna per una decapottabile aperta ad ogni intemperia, ad affidare ormai solo ai vecchi combattenti gli inni patriottici preferendo il charleston e subito dopo il rock’n roll, e via via jazz, fusion e hard metal, a dimenticare le proprie specialità culinarie per gli hot dog e il pop corn, il proprio vino per la coca cola, a cambiare i vecchi abiti per uno sdrucito blue jeans, a travestire il vecchio san Nicola in un sorridente Babbo Natale, a dare ai neonati i nomi più americani possibile, a tuffarsi nelle pagine di Juke box all’idrogeno di Ferlinghetti o in quelle di Gregory Corso invece di ri-immaginare l’oboe sommerso di Quasimodo o i sopravvissuti di Knut Hamsun, a preferire i motivi di Dylan o dei Doobie brothers, alle musiche europee dei Beatles o dei Rolling stones, che in fin dei conti ci dimostrano l’esatto tenore della nostra tesi: siamo diventati americani.
Ancora oggi, dopo ben 75 anni, non siamo riusciti a sganciarci da quell’americanità arrivata con le truppe della liberazione: non abbiamo smesso di abbracciare senza analisi, né critica alcuna, i gesti, i gusti, l’essere sempre più americani nei comportamenti, nel linguaggio e persino nei nostri cervelli. E se noi Siciliani avevamo tentato di diventare la 51° stella, oggi l’intera Europa vuole cambiare pelle e diventare Stati Uniti d’Europa.
E dopo 75 anni, una triste constatazione: abbiamo volontariamente perduto la nostra libertà, la nostra identità e la nostra sovranità. Non per volere dei soldati della libertà, ma per scelta nostra. L’Europa, così è schiacciata da un peso che noi abbiamo scelto di accollarci: quello di non voler essere più noi stessi.
Eugenio Preta