La cattedrale di Notre Dame oltre scribi, farisei, ricostruttori e mecenati
L’ipocrisia della nostra società esibita in occasione dell’incendio divampato nella cattedrale di Notre Dame a Parigi, si è manifestata di fronte alle fiamme distruttrici ed alla croce che precipitava in schegge di fuoco davanti a media e tivù accorsi a frotte per disputarsi le immagini. Metafora della Chiesa ridotta ormai a vuote stanze, ad esibizioni non richieste di compassioni senza senso, ad immagine di sottomissione che senza ritegno, precipita come la freccia della cattedrale nello spazio livellante/livellato del terreno.
“Distruggete questo tempio ed in tre giorni io lo riedificherò…” diceva Gesù rispondendo ai giudei che gli chiedevano il miracolo. Nessuno allora aveva capito, nè gli scribi, nè i farisei o i dottori depositari della lettera.
Notre Dame brucia e miseri piagnucolosi, che si dicono cattolici, si sono strappati le vesti inquadrati da diligenti operatori tv in questo luogo di culto, simbolo della nostra identità e delle nostre radici, incendiato per ragioni ancora oggi sconosciute
Lamentevoli cattolici adepti di un cattolicesimo mondano la cui maggioranza – e sono statistiche recenti – probabilmente non ha mai varcato il portone di una chiesa sin dall’epoca della sua prima comunione, dal matrimonio immancabile di una lontana cugina o dai funerali di una vecchia prozia. Questi cattolici in menopausa e soprattutto loro, dimostrano di non aver capito nulla.
Si avvicinava la Pasqua dei giudei e Gesù risaliva verso Gerusalemme dove, nel tempio, trovò venditori di mucche, di pecore e loschi commercianti. Allora prese una frusta e li scacciò dal tempio. La scena della purificazione del tempio può farci capire il significato catartico della distruzione di Notre Dame. Le nostre chiese sono ormai in stato di abbandono, molte vengono persino messe in vendita. Ma sono in rovina perché abbandonate dai fedeli, non dalle pie donne, in numero sempre più ridotto.
Quei cattolici che diventano buoni secondo la circostanza, invece che piagnucolare sull’incendio, dovrebbero preoccuparsi piuttosto di riflettere sulla loro frequenza alla messa piuttosto che del colore della loro tuta di jogging domenicale. Ah, i buoni fedeli che applicano alla lettera le parole del Vangelo. Senza intento moralizzatore, e chi sarei io? In queste oscure circostanze un accenno alla coerenza si impone.
Come la cattedrale parigina, ricostruita grazie all’ingegno anarchico di Viollet Le Duc, nostre chiese languono lentamente ma inesorabilmente a bagnomaria, verso una scomparsa sicuramente meno impressionante dell’incendio distruttore, ma incenerite a fuoco lento proprio dalla desertificazione creata dai fedeli, tanto che se fossero trasformate in centri commerciali, alberghi, centri culturali o peggio in moschee, la colpa non sarebbe certamente da attribuire al consumismo divorante, ancora meno alla logica islamica, per sua stessa natura conquistatrice. Sarebbe soltanto colpa nostra e delle nostre abiure. E non saranno certamente i pochi praticanti rimasti, ormai come gli ultimi moicani, capaci di resistere al pericolo consumistico o alla minaccia laica o islamica.
Cosi, alla viglia di un conflitto di civiltà che già si annuncia profondo, mentre i conservatori, i donatori, gli architetti e le iene di questa nostra società si lanciano sul cadavere affumicato di quella cattedrale, diventa indispensabile rimettere le chiese al centro del villaggio, il Cristo al centro della chiesa, al centro delle nostre riflessioni per tentare di salvare quello che resta delle nostre identità, delle nostre origini e della nostra fede.
Eugenio Preta