La malattia “populista” e le prossime elezioni europee
Sulla stampa mondiale il populismo è descritto come una grave malattia legata al nazionalismo e a quelle frontiere che l’Europa dei padri fondatori aveva sognato di abbattere. Dopo una dura campagna elettorale appena conclusa, se gli italiani sembrano ancora lontani dalla percezione delle prossime elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo, i media e la politica d’Europa sono già entrati nel vivo della campagna elettorale, iniziando col fare la differenza tra i difensori dell’Europa unita o meglio unificata, e quelli che questa Europa vorrebbero demolirla.
Si riuniranno certamente sotto una sola bandiera, tutti quelli che temono il fallimento dell’Unione e quelli che sono turbati dai discorsi ansiogeni dei media del sistema, che vorrebbero mettere un freno alla progressione dei populisti per bloccare definitivamente il funzionamento di questa Unione europea con la consapevolezza di poterla trasformare dall’interno in un’unione di Stati nazione, con il prevedibile danno alle oligarchie.
In Europa oggi è un gran parlare sulle decisioni prese dal Ministro dell’interno italiano, definite come espressione di vera e propria patologia senza tenere in considerazione che una grande maggioranza di cittadini approva queste decisioni.
Più ispirato, recentemente Barack Obama, ha denunziato l’errore delle classi dirigenti europee che sembrano aver fallito il bersaglio delle loro politiche, dal momento che i cittadini, sembrano preferire di vivere in spazi relativamente chiusi piuttosto che in zone aperte ai flussi migratori. E’ il segnale che l’oligarchia sta cominciando a rendersi conto dei sui errori.
Anche il sociologo americano Robert Putnam, ha osservato che più la società è eterogenea meno fiducia esiste tra i suoi membri. Gli stessi dirigenti del partito social-democratico danese hanno recentemente ammesso che l’immigrazione porta direttamente alla cancellazione del sistema di protezione sociale al quale i danesi sono tanto legati, tesi confermata peraltro anche dagli economisti Edward Glaeser e Alberto Alesina che hanno studiato il problema e affermano che l’eterogeneità etno-culturale reppresenta la causa più importante della distruzione della solidarietà sociale.
Alcuni, poi, avanzano la tesi secondo cui l’eterogeneità della società statunitense abbia effettivamente impedito la formazione di un sistema sociale paragonabile a quello europeo, e questa stessa eterogeneità avrebbe impedito la formazione di movimenti socialisti e comunisti partigiani di una più larga ridistribuzione delle ricchezze.
L’esistenza di una molteplicità culturale in seno allo stesso Stato sembrerebbe tradursi in una preferenza comunitaria che si oppone a qualsiasi proposta di solidarietà nazionale. L’essere umano ama la condivisione con gente che appartiene al suo gruppo e gli somiglia, sono in pochi ad essere disponibili a condividere interessi con persone diverse per natura o per valori.
E’ un tratto comportamentale assolutamente in linea col principio che gli esseri umani sono esseri sociali che, hanno subito nel corso della loro storia una potente selezione di gruppo che si è tradotta nella distinzione dei comportamenti che porta al valore della perennità del gruppo di appartenenza e del rafforzamento della sua coesione interna. Da qui la scelta universale tra noi e gli altri che struttura tutti i comportamenti umani.
Il rifiuto dello straniero non sarebbe perciò una patologia ma, al contrario, un comportamento assolutamente normale perché inerente alla nostra natura di essere sociale. Del resto bisogna registrare come le migrazioni creino ovunque reazioni di rigetto: dall’Europa all’Africa del sud, dall’Australia all’Algeria, a dimostrazione del fatto che non sono fenomeni episodici e parziali ma piuttosto fenomeni generali che interessano tutta l’umanità, indipendentemente dalle culture da cui sono originate.
Eugenio Preta