Le guerre doganali americane più utili delle vecchie spedizioni coloniali
Dalla data della sua elezione, le realizzazioni concrete di Donald Trump sono state ben più di matrice repubblicana che populista. Il suo programma di liberalizzazioni massicce e della riduzione delle imposte alle imprese e quelle accordate alle famiglie – forte cardine elettorale – non sono che misure considerate unanimemente temporanee perché necessariamente soggette a revisione, in funzione dello stato delle finanze pubbliche.
La politica delle grandi opere non interessa i ricettatori dei fondi degli eletti del Congresso, come del resto la sua stessa ambizione di controllare l’immigrazione. Dopotutto, dal momento che la disoccupazione, anche in seno alle minoranze etniche, è al livello più basso mai registrato e che la crescita è in ripresa, perché privarsi di manodopera a basso costo importata dal terzo mondo, principalmente dal continente sudamericano? Dal momento poi che la Russia appare indebolita, perché non cercare di “vassalizzarla” definitivamente per controllare le sue ricchezze boreali e in tal modo impedire la rincorsa della Cina verso quell’energia di proprietà russa?
Durante la sua campagna elettorale Trump ha ribadito che gli americani dei grandi centri industriali sono vittime dalla mondializzazione e che la de-industrializzazione ha un impatto devastante sulla bilancia commerciale. Così si spiega l’attuale guerra ad usura, denominata “picrocholine”, sulle tariffe dell’acciaio e dell’alluminio lanciata da Trump con il più gran dispiacere dei repubblicani. D’altra parte, Trump ritiene, senza più tentennamenti, che le guerre commerciali sono quelle che si vincono più facilmente delle spedizioni coloniali di George W Bush.
Invece di applicare i dazi alle tariffe sull’acciaio e sull’alluminio, Trump dovrebbe occuparsi seriamente dei veri problemi del Paese. Invece di mettere fine alle pratiche industriali scorrette di paesi come la Cina, con la politica aggressiva dei dazi penalizza piuttosto paesi alleati, in primis i Paesi europei, mentre ci sarebbero molti altri modi per aiutare i consumatori e i lavoratori americani.
Assistiamo oggi ad un’evoluzione molto indicativa dell’amministrazione americana che sposta le sue mire politiche dalla Russia verso la Cina, sia perché la carta russa sembra aver fatto il suo tempo, sia perché ha provocato quell’enorme trappola giudiziaria che, di fatto, ha reso il Presidente ostaggio dei neo conservatori.
Così mentre la Cina si impegna lentamente ma inesorabilmente nel suo programma di egemonia, tanto da rifiutare persino l’invito americano di entrare nel gioco del G2, il gruppo delle due potenze, ispirato dalle tesi neo-con di Zbigniew Brzezinski e che gli Usa, dal 2005 propongono costantemente al congresso del popolo Cinese. I cinesi non intendono però servirsi di alleati minori in seno al gruppo proposto, preferendo il metodo saudita dell’arricchimento personale delle classi dirigenti, utile per guadagnare tempo prezioso sulla via delle riforme e posizioni geopolitiche importanti.
In tale contesto la strategia della “Trump ass” diventa l’ideale. Egli utilizza la guerra dei dazi a fini prettamente politici approfittando del fatto che l’Europa non ha più niente da offrigli mentre la prospettiva cinese gli apre scenari favorevoli.
Un trattato di pace Pan-coreana farebbe poi di Trump un leader mondiale incontestabile, del resto solo così si può spiegare la prudenza dimostrata dagli americani nelle discussioni commerciali perennemente in corso con le delegazioni cinesi.
Trump, lo si voglia o no, protagonista della nuova dottrina espansionistica americana, novello Monroe adattato ai tempi, dimostra di tenere alta l’attenzione su tre bersagli ben definiti: Cina, Israele e Arabia saudita. Al contrario degli europei che, imbevuti di atlantismo, comminano sanzioni alla Russia e non riescono ancora a comprendere quali possano essere i loro veri interessi geopolitici.
Eugenio Preta