Tiepido Aprile
“Tiepido Aprile” canta, rifugiato alle pendici dell’Etna, Franco Battiato. Oggi è ancora Aprile e noi potremmo fargli eco, da ogni angolo della Sicilia: “tiepida Liberazione”. La Liberazione alla quale si aspira in Sicilia non è mai una liberazione in termini politici stretti, può somigliare a volte anche a una canzone, meglio, a un’invocazione.
A Messina, per esempio, invochiamo Santo Liberante con la forza dell’esasperazione, e Wikipedia ci soccorre, globale e materna, insegnandoci che è un’espressione tipica della città dello Stretto, questa. Evidentemente qualcosa, oltre il mare, nell’oltre tutto al di qua, dove politica e senso civico avrebbero il loro spazio laico di elezione, ci sta tanto stretto.
E, oppure ma, invochiamo i Santi, perché vengano a scioglierci. La questione è tutta qui infatti: la vita attiva e la contemplativa, le confondiamo continuamente, dalle nostre parti. È un male questo? Forse, oppure…
Alla liberazione non si aspira soltanto in termini politici, in Sicilia, non la si capisce bene dentro il codice politico e dentro quel codice, di conseguenza, non può essere celebrata con tutta quella passione (probabilmente) che si coglie nella retorica dell’altra Italia, dove siamo approdati in molti, tra i Siciliani.
E questo impedimento a cogliere con autentico trasporto quello che oggi l’Italia tutta celebra, con apparente trasporto, non dipende dal fatto che noi “non siamo italiani” – o, da messinesi, “lo siamo quasi”, come ci dicono “babbiandoci” al Nord – ma da un tic di appartenenza, difficile da estirpare: non siamo esseri dalla spiccata politicità, è un fatto anche questo. La politica non l’abbiamo mai capita fino in fondo, in Sicilia, oltre il crepuscolo dei Vespri. È vero? È un male? Forse….
È una cosa, la politica, che per noi ha a che fare con la vita con una tale snudata evidenza che la vita la assorbe e purtroppo finisce per schiacciarla. Ne soffriamo o ne ridiamo.
Per fare politica ci vogliono i calcoli. Se devi partire per un’impresa fatti il conto. Lo dice pure la Bibbia e dovrebbero ricordarcelo i Santi che invochiamo. Siamo sordi? Siamo difettosi? Forse, oppure…
Sappiamo parlare in Sicilia e non contare. Siamo ancora Greci. Abbiamo inventato la retorica, noi Greci siciliani. Gli Arabi ci hanno insegnato il numero e le arance, ma di loro ci sopravvivono accanto solo le ultime. E non sapremmo distinguerle più con assoluta sicurezza da quelle spagnole o marocchine che ci riempiono la tavola. D’altronde, dirà il pro-global alla leggera di turno: “forse le arance siciliane non venivano da un’altra parte?” Ma certo. Eppure non tutte le globalizzazioni sono uguali: il nostro sempre nuovo essere buoni ci fa dimenticare di essere coscientemente buoni.
Così come la nostra discalculia conclamata, ci raccontiamo, ci avrebbe favorito la parte destra del cervello, quella creativa… Arriviamo persino a fregiarci di questa virtù, ma il non calcolatore nasconde lo sprovveduto.
Come nel filosofante, oggi, riconosciamo spesso il disperato. Dobbiamo ammetterlo, se questa è una giornata di franchezza, se questo è un momento onesto degli italiani….
Oggi si ricorda che le cose buone si conquistano insieme. Ma noi non sentiamo il senso di questo ‘insieme’ che è il fondamentale di gioco della politica, l’ovvio che non è ovvio. Noi facciamo i superiori. Siamo da denigrare? Forse…
Se oggi pensiamo ancora che la vita sia molto di più della politica e la libertà sia molto di più della celebrazione della Liberazione che non abbiamo mai sentito veramente, e se quello che ci pervade, al posto delle speranze a comando dei cortei italiani, è il sentimento di impassibilità in questa giornata, questo sentimento potrebbe valere a ricordarci che se vogliamo essere impassibili possiamo esserlo, certo, ma non per partito preso, non vorremmo cadere in discorsi politici… Vogliamo ancora fare i filosofi? Allora, se non ci sentiamo liberati e neppure ci interessa esserlo stati, chiediamoci almeno se siamo liberi. E da quella nobile e disprezzata zona della vita che è la politica, portati oggi a peso morto nel suo territorio, che appare impraticabile, guardiamola la panoramica del resto della nostra vasta vita: siamo liberi lì? No. Da dove partire? Se provassimo a liberarci per sempre dalla politica molti approverebbero questa scelta. Ma da quale politica liberarsi? Quella limitata, contenuta dalla vita come un parassita è contenuto dal corpo, quella piccola piccola.
Certo! Siamo in tanti a ripetere che la politica è finita, non ce la facciamo a immaginarcela come una cosa piccola sì, ma una cosa viva, che abbraccia quel corpo più grande della vita. Una bambina o una bestia, che afferri questa gigantessa Vita da una mano, fosse pure da un dito o da un piede o dai capelli, e la svegli o la disanneghi, la faccia vivere fuori dalla stanchezza: quanta stanchezza ci coglie per le strade di Messina anche oggi? Me lo raccontano da casa.
Mio padre ha provato a fare politica. Ricordo la casa piena di volantini come bandierine di festa, una festa nel preparare e da preparare, una festa di chi i Santini ce li ha altrove, ma se deve mettere la faccia lo fa con gioia pura, con onestà profondissima.
Il problema non è che mio padre è un sognatore- gli hanno detto così, ma per fortuna non ci ha creduto-, il problema non è che “la politica si fa con la pratica”. Il disastro, nell’educazione politica di gente della mia generazione, gente figlia di gente onesta che ci prova a vedere le cose sotto la lente politica, è dovuto al fatto che quasi nessuno in Sicilia ha voluto sognare politicamente insieme a persone come mio padre. Oppure cominciava a sognare, ma poi diceva che aveva fatto finta di dormire e di sognare.
Era sempre stato sveglio, il siciliano politico di turno: aveva fatto finta, appunto. “La politica è cosa per gente sveglia”. Davvero? Hanno fatto davvero politica gli ‘svegli’?
Mio padre mi ha insegnato che l’inizio di ogni politica é l’utopia. Poi, si arriva dove si può. Sì, “dove si arriva si ‘mpizza il chiodo’. Per appendere quale quadro? Cosa abbiamo disegnato in questo quadro? Cosa abbiamo preparato per la contemplazione futura?
Oggi è il giorno della Liberazione e mio padre, siccome è italiano, lo passa come tutti gli italiani all’aria aperta e mi telefona, mentre io sono a Bologna, raccontandomi che un piccione ha fatto un nido in un vaso abbandonato da mia madre in terrazza, privo di piante. Mi manda le foto. Evidentemente il piccione l’ha considerato ben predisposto, quel vaso dimenticato: un nido tutto senza sforzo? È un uccello “meridionale” quel piccione della mia terrazza messinese, gli piacciono le cose facili, non è un lavoratore. Direbbero così, se volessi raccontarlo, al Nord, dove sono io in questo momento. Lo direbbero con un sorriso bonario e io annuirei, perché saprei bene che non sarebbe detto per far male, ma tra le tante cose dalle quali io non sono libera c’è questo sorriso sociale da “meridionale, ma colto” che non se la prende mai.
Se fossi serenamente coraggiosa e politicamente pronta, io direi che quello del mio terrazzo, se vogliamo proprio usare le metafore, è un uccello meridionale intelligente. Non è che al Sud, persone e bestie, non vogliamo fare sforzi. È che nasciamo nella contemplazione. Mio padre, per esempio, la usa per sognare politiche e per sentire la vita commossa degli animali simbolici del mio terrazzo. Sempre contemplazione é. Io gli somiglio. Ho contemplato il mare. L’ho pure oltrepassato.
Da sempre mi piace il fatto che Ulisse vada e venga dal mondo. Non ho mai capito se si fermerà o no. Da Messina è passato di sicuro e ci ha toccato. Forse è suo quel po’ di Dna greco passato dentro di noi, forse è lui che ci ha lasciato quello stigma della contemplazione… Quella virtù poco compresa e che forse per questo é sempre lì lì per scivolare nel vizio. Io la confondo nella sua essenza. Forse per questo sorrido socialmente e non riesco a spiegare il nostro non fare.
In questa festa della Liberazione, in Emilia Romagna, guardo il vai e vieni dei cortei, oggi, e confondo andare e tornare in un unico sogno che nella mia vita non so dove si geolocalizzerà: azione eminentemente politica quella di abitare un posto; e che politica fai se non sai dove stai e starai? Ma non mi sento eticamente compromessa dal fatto che, tornando a casa mia per le feste e per l’estate lunga degli insegnanti, sempre più spesso vorrei la pace, che inizia psico-fisiologicamente a somigliare a qualcosa di simile a uno di quei vasi predisposti per nido. E non è una vita facile neanche questa.
Se potessi insegnare senza incontrare l’inevitabile gap cognitivo di chi non è nato nella mia civiltà, ma in un’altra, insegnerei bene anche cose siciliane. Oltrepassato il mare, l’insegnante siciliano al Nord ama le differenze e ama la lingua italiana dove la frase molto di moda quanto vera, almeno nella sua essenza, la frase “differente è bello” intendo, significa quello che significa e non significa “differente non è differente”.
Guardate che il piccione – vorrei dire raccontando una storia vera e metaforica al contempo, vorrei raccontare senza sorridere socialmente- l’ha riempito di rametti il vaso e l’ha abitato indefessamente, quel vaso predisposto. Ha fatto il suo sit in per la vita. Ha fatto una cosa politica. Non è che si sia piazzato lì a covare mezzo minuto. Se lo sta faticando il suo futuro ‘facile’. Io fatico il mio, chiedendomi quale progetto portare avanti o quale progetto incontrare tra le proposte della vita. La progettualità é anche individuare spazi predisposti e abitarli. Tutto è predisposto, nulla si crea e nulla si distrugge, se vogliamo essere laici terra terra: il mondo è qui, si può costruire solo “sopra il mondo”. Trovare basi è un principio ingegneristico, non un rifugio nel facile. Mi sembra a volte che Messina non abbia altro che spazi predisposti ( molti, però, indisposti). Ma forse è desiderio e non contemplazione. O forse le cose sono simili ed è giusto essere confusi a riguardo… ogni tanto è giusto essere confusi.
Se questi spazi non ci fossero, non ci prenderebbe una rabbia infuocata a riconoscerli ovunque, nel nostro panorama, questi spazi che vorremmo predisposti e sappiamo che lo sarebbero ma non lo sono ancora davvero. Le basi sono ancora inaccessibili. Ed ecco quella rabbia infuocata accompagnata da quella frase che è cosa comunissima, tanto che pare stia diventando un detto, ormai: “hai capito da cosa siamo stati capaci di scappare?”
La dici al tuo amico, emigrato in Patria, quando ti arrampichi sulla collina di Cristo Re a contemplarti casa e oltrecasa dall’alto. La ascolti da quelli che hanno fatto la stessa pensata, quella mattina promettente. Quale liberazione o libertà oggi? Per capirlo vorrei essere tanto intelligente quanto sono grecamente contemplativa.
È l’unica cosa che capisco, questa della necessità dell’intelligenza, tra i canti delle mondine e le birre della Liberazione che oggi mi beve intorno Bologna. Il fatto è che la contemplazione non è solo quello sguardo disincantato del bambino che vaga sul panorama come su una superficie larga e impenetrabile. I panorami, per i “grandi”, devono diventare panorami 3D. Panorami della tridimensionalità della coscienza politica, quella che fa individuare spazi di penetrabilità nella realtà, quindi di libertà di movimento, quindi di libertà. Quando vira al politico, la vista è vista che mira. Ed ecco che mi soccorre la lingua che ho imparato a casa mia e che insegno fuori casa: “mirare”, ecco… Vorrei “mirare” cose nuove oggi, e questo -posso spiegarlo a qualsiasi parlante italiano- significa contemporaneamente “ammirare” e “puntare” il fuoco buono delle intenzioni su qualcosa che corrisponda alla bontà delle intenzioni, se è vero che l’uomo dell’era virtuale ha ancora corrispondenza con la sua realtà. È il virtuale che confonde tutto, è la politica che può riportare al reale. La realtà la impattiamo con amarezza, ma è il passo necessario per ricostruirla.
Cosa amara, per esempio, è che, a ben vedere, oltre le feste e festicciole, anche qui in Emilia la liberazione è “scaduta”. Fanno molto folklore oggi, dove hanno avuto tanti morti. Ho sentito lamentarsi le vecchie di Modena, anni fa, perché alle case dei martiri partigiani che riempivano Modena di urla, sotto le torture dei nazisti, i nipoti non appendono più le bandiere. C’erano i torturati, c’erano i morti fucilati qui, che non so neppure immaginare, ma so che sotto la livella della guerra non sbaglio a pensare che somiglino ancora ai morti sotto i bombardamenti alleati a Messina. Tra i morti siamo tutti italiani. E tra i vivi?
C’è pure quel gioco a sparare sulle bottiglie che vinci il pupazzo, per le strade liberatissime di Bologna. Quello delle fiere. Apprezzo socialmente i loro spari per finta e il disordine allegro della gente di qui. Anche loro, però, passano al mio filtro greco quando li contemplo. Li prendo come metafore di quello che mi ripropongo… Mirare e sparare, sì, sparare fiori, come suggeriscono i cori vintage del Pratello in festa. Sparare fiori sul futuro. “Oh Yes! Che bello!” Mirare e sparare, io, sul futuro che non è stato progettato bene, quello che non esiste ancora e quindi lo possiamo eliminare e cambiare. Ma concediamocela questa utopia di dire “noi”… Altrimenti che cosa politica starei dicendo?
“Sparare nel futuro quel “noi” disperso dei miei amici siciliani voglio, con loro lo voglio, ora li chiamo su skype e ci organizziamo!” Forse sono state le lupare della mafia a spararci lontano? Hanno ragione forse? Forse sono quelle della vecchia politica? Forse è stato un taglio alla canna del fucile che ha sparpagliato le palline-“noi”? “A chi piglio piglio”: così siamo stati sparati fuori casa io e i miei amici. Ora vai un po’ a recuperarci. Vai un po’ a ritrovare fucili interi per i fiori. Vai un po’ a depurare le mie metafore da tutta questa violenza che il 25 aprile male inteso al quale assisto senza parteciparvi induce a celebrare, puoi parlare di fiori, ma se dici “sparare” si capisce che sei un po’ arrabbiato. O no?
La festa del 25 aprile è una festa ancora cavalcata per farci arrabbiare… Sì. Certo, se volete indurla la rabbia, chi è che non si sa arrabbiare per bene? Ma la politica è una rabbia o una mirabile visione? Forse è una vista mirata: ed è oltre uccellini, fiori palline e birre che conviene mirare. Altrimenti si finisce rifugiati nel sorriso social che non è né attivo né contemplativo: è finto come un sorriso finto. E la politica, anche quando si passa dall’amara constatazione che non c’è tanto da sorridere, è la cosa più reale della vita, anche quando bisogna attrezzarsi tra contemplazione e mira per sognarla diversa.
Fabrizia Vita