Il Nobel a Bob Dylan, è anche il trionfo di quella generazione che voleva cambiare il mondo
Robert Zinnerman, alias Bob Dylan, l’autore della colonna sonora di tutta la nostra generazione, l’autore che con i suoi testi e la sua musica, ha vinto il Nobel 2016 per la Letteratura con questa motivazione: “Ha creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana”. Dunque poesia, letteratura. Dylan è sempre Dylan: è il bisogno del mito, un mito sempre da costruire e poi da abbattere a tutti i costi.
A dispetto dei detrattori e dei nuovi critici impietosi, Dylan crea musica e storia e, persino inimmaginabile in questa epoca di vuoti a perdere, svetta nelle classifiche mondiali sempre romanticamente, nell’ambito di quel viaggio infinito dei 2000 concerti, quel “Never Ending Tour” partito nel 1988 da Concord, California.
A quei tempi Dylan aveva concluso il suo decennio mistico e dopo gli “Human Be In”, le marce pacifiste, la protesta contro la contaminazione nucleare, il suo disimpegno dalla politica – denunciato con enfasi da Joan Baez – arrivava alla svolta mistica, ritmata da “Slow Train Coming”, il lento treno che, introdotto dalle chitarre dei fratelli Knopfler (Dire Straits), parlava dell’Angelo, del segnale della riconversione, del suo ritorno a Dio.
Anche per questo, Papa Giovanni Paolo II, lo volle a Bologna in occasione del XXIII° Congresso Eucaristico Nazionale del settembre 2007. Una serata straordinaria, che finalmente dava un punto di riferimento a quella parte del mondo giovanile, certamente molto numerosa, ma troppo spesso lasciata sola e indifesa di fronte alla massa sballottata dai riti del consumismo fine a se stesso, con squallidi tentativi di manipolazione politica.
La presenza in Vaticano di Dylan, il profeta di tutta una generazione, era stato elemento di novità e di provocazione, forse, come oggi potrebbe sembrare l’attribuzione del Nobel per la Letteratura a Stoccolma.
E Dylan, come il figlio dagli occhi azzurri che era stato fuori casa per tanto tempo, aveva salutato il Papa, dopo la pioggia acida, bussando letteralmente alle porte del Paradiso con il suo “Knockin’ on Haeven’s Door”: “Tieni questa stella mamma, fammi luce perché sento arrivare il buio mentre sto bussando alle porte del paradiso”, con queste parole il suo commosso saluto al grande Papa.
Il Nobel di questi giorni, risolleva forse Bob Dylan, dalla decadenza di un mito che egli stesso sembra aver voluto favorire, rifiutando ormai da tempo, di celebrare dal vivo il suo passato, stravolgendo il suo presente, e sconvolgendo le sue canzoni più famose nella scaletta da eseguire in concerto, rendendole quasi irriconoscibili, cercando di reinventare non solo nuovi arrangiamenti, ma addirittura cambiando le parole dei testi.
E’ proprio questo il fascino e il mistero di Dylan: il tentativo di stravolgere il proprio passato e di riproporsi al presente in maniera differente, nel comporre e creare musiche e testi che diventano racconti, romanzi, pagine di storia.
Ed il popolo di Stoccolma ne ha avuto conferma al momento della proclamazione, quando al nome di Bob Dylan è stato un forte boato di approvazione.
E così, il Nobel al genio del menestrello d’America, ci sembra più che meritato. Con lui è salita agli onori anche la nostra gioventù, con tutto il suo carico di rivolte, amori, errori, cose giuste e cose fatte.
Bob Dylan è quello in cui abbiamo creduto, che ci aveva forse illuso e che oggi si ripropone nella catarsi del boato di una sala affollata da seri signori finalmente in delirio, emancipando, ridimensionando, assolvendo i presunti errori della nostra gioventù.
Un Nobel serioso in una serata che è diventata già magica per tanta gente “dylaniata” come noi, piegata ormai dal peso del tempo e della memoria. La soddisfazione per il premio è grande, la gioia immensa, mentre ritornano alla mente gli ultimi versi di Dylan in “Forever Young”: “Che tu possa avere solide radici quando il vento cambierà direzione e che tu possa costruire una scala per le stelle, e che tu possa poi salirne ogni gradino per crescere, essere giusto, essere vero”.
Eugenio Preta