Autonomia siciliana: quattro passi tra le menzogne

E’ tempo di porre fine all’ascarismo. Per restituire alla Sicilia dignità politica e civile. In questa breve digressione tra Giuseppe Alessi, Pio La Torre, l’Alta Corte per la Sicilia e gli articoli dello Statuto non applicati proviamo a ragionare su quello che oggi bisognerebbe fare per liberarci da chi ci ha ridotto in una colonia. Le buffonate ‘Costituzionali’

Immaginate un orologio meccanico, al quale, per motivi oscuri, manca  qualche pezzo. Camminerà? Forse sì, ma zoppicherà. Sarà preciso? E come potrebbe?

Questa è stata sin dal primo giorno della sua nascita l’Autonomia regionale. Una creatura monca e incompiuta. Deliberatamente, dolosamente incompiuta.

Ci sono parti essenziali, vitali, dello Statuto regionale che non sono state attuate. Per colpa esclusiva, per deliberata omissione dell’Amministrazione statale.

Riporto per intero, a beneficio dei suoi traviati nipotini, il pensiero di Pio La Torre sull’Autonomia:

“E’ da respingere come semplicistica e sbagliata la conclusione che i mali di cui soffre la Sicilia derivano dall’Autonomia regionale. E’ nostra ferma convinzione, al contrario, che questi mali derivano dalle limitazioni che all’Autonomia sono state imposte dai gruppi dirigenti nazionali economici e politici e dal modo come questi gruppi hanno inteso servirsi dell’Autonomia siciliana come di una appendice periferica anche amministrativa del loro dominio personale”.

“Mancanza, dunque, non eccesso di Autonomia. L’indubbia responsabilità dei gruppi dominanti siciliani economici e politici è una responsabilità derivata e secondaria rispetto a quella principale nazionale”.

Per comprendere appieno il ragionamento di La Torre occorre scendere più in profondità e farci alcune domande. La prima: uno Statuto pienamente e prontamente attuato avrebbe fatto decollare la Sicilia, permettendole di mettersi al passo con il resto del Paese? Una risposta positiva è possibile argomentando logicamente dalla circostanza che, senza l’attuazione integrale dello Statuto, la Sicilia non ha fatto grandi passi avanti.

E’ quindi giunto il momento di chiedersi: perché lo Stato ha tradito lo Statuto siciliano? Quali interessi lo hanno determinato e mosso? Interessi certamente non della Sicilia, perché quegli interessi erano e sono chiaramente declinati nello Statuto. Allo stesso modo, nello Statuto è detto  come soddisfarli. Se dunque lo Stato non attua lo Statuto non fa gli interessi della Sicilia, ma soddisfa altri interessi.

Altra domanda: è logico dunque pensare che la concessione dello Statuto sia stata strumentale, funzionale alla normalizzazione della situazione conflittuale siciliana degli anni ’50 del secolo scorso e che quindi, cessato lo stato conflittuale, lo Stato fa marcia indietro?

Una risposta affermativa è plausibile. La mancata attuazione dello Statuto viene realizzata dallo Stato non dando vita alle norme    fondanti dell‘Autonomia e della specialità dello Statuto, ovvero di quelle norme che trasferiscono poteri originari dello Stato alla Regione. Quali? L’essere la Regione organo statale e il potere di farsi ubbidire.

L’articolo 20 dello Statuto stabilisce che il Presidente della Regione esercita poteri amministrativi secondo le direttive del governo, assumendo la veste di organo dello Stato con rappresentanza generale del governo centrale nell’Isola.

Articolo 21) Il Presidente  rappresenta altresì nella Regione il Governo dello Stato. “Lo Stato vive nella Regione siciliana impersonato dagli stessi organi regionali”, scriverà l’Alta Corte.

Che cosa significa questo? Semplice: che nella Regione non dovrebbero esistere uffici dello Stato, comprese le Prefetture, ma solo uffici della Regione, alcuni con funzioni delegate dallo Stato.

Questi articoli sono rimasti lettera morta

Uguale sorte ha  avuto l’art 31 ( Poteri di Polizia): “Al mantenimento  dell’ordine pubblico provvede il Presidente della Regione a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente per l’impiego e l’utilizzazione dal governo  regionale”.

Ugualmente originari, se non di più, erano i poteri di giudice delle leggi che furono assegnati dallo Statuto all’Alta Corte per la Sicilia, organo cui competeva il giudizio di costituzionalità delle leggi della Regione e delle leggi dello Stato rispetto allo Statuto.

L’Alta Corte, scrive Rosario Mangiameli, “con la sua composizione paritetica tra giudici di nomina regionale e giudici di nomina statale poneva l’ordinamento regionale su un piano di non subordinazione, ma di equiordinazione nei confronti dell’ordinamento statale”.

Adriana Ciancio aggiunge: “L’Alta Corte si atteggiò a valido presidio dell’Autonomia, sovente in difformità da quelle che sarebbero state sugli stessi punti le determinazioni assunte da lì a breve dalla Corte Costituzionale, che nei suoi primi anni di funzionamento dimostrò all’inverso la propensione ad un deciso contenimento della vocazione regionalistica manifestata dal suo predecessore siciliano, secondo un visione della Repubblica di impronta ancora fortemente centralistica, nonostante il disegno autonomistico delineato in Costituzione”.

Luigi Einaudi, da Presidente della Repubblica, non ebbe pace fino a che l’Alta Corte non fu assorbita dalla Corte Costituzionale. Per via della sua composizione, giudicava lo strumento pericolosamente politico, dimenticando volutamente che egli stesso aveva concorso a determinare la composizione della Corte Costituzionale, di cui un terzo è di nomina del Parlamento, con le conseguenti buffonate cui siamo stati costretti ad assistere pochi mesi fa in occasione dell’elezione in Parlamento di due nuovi giudici.

Un grimaldello fu l’introduzione nella Carta Costituzionale di una norma transitoria che appunto prevedeva, senza avere il coraggio di nominarla espressamente, l’assorbimento dell‘Alta Corte all’interno della Corte Costituzionale, cosa che la Consulta fece con l’atteggiamento di un commesso di droghiere che va ad incassare i sospesi. Ma fece di più.

La Consulta “estese alla Sicilia i limiti delle competenze legislative introdotte negli altri Statuti speciali ma testualmente assenti nello Statuto siciliano e, d’altro canto, ha spesso interpretato in modo rigoroso i limiti in questo espressamente previsti, con ciò procedendo ad una sorta di interpretazione adeguatrice delle norme speciali siciliane sovente appiattite su quelle degli Statuti delle altre Regioni ad autonomia differenziata”.

“Questo ha condotto a pretermettere quelle peculiarità storiche, economiche, sociali, geografiche, territoriali della Sicilia che avevano giustificato la concessione ad essa di forme e condizioni particolari  di Autonomia, finendo alla luce degli sviluppi ulteriori per influenzare il successivo assetto della  esperienza regionale siciliana, divaricata tra le previsioni statutarie di forte valorizzazione  dell’autonomia speciale, in molti casi disattese, e la concreta attuazione data ad esse”(A. Ciancio).

Questo è un passaggio determinante che merita una ulteriore riflessione.

E ci tornerò. Mi preme qui sottolineare, a coronamento della linea repressiva statuale, la continua aggressione dello Stato all’Autonomia finanziaria della Regione. Nel solo decennio 2001/ 2011, per parlare dei tempi nostri, la Regione si è vista costretta a  ricorrere ben  37 volte alla Corte Costituzionale  per attacchi alla autonomia finanziaria e non sembra che sia   finita. Anzi …..

“Magistratus virum ostendit”, dicevano i nostri antenati. La carica rivela l’uomo. Ma in alcuni casi non è nemmeno necessario. L’uomo già si è rivelato.

Giuseppe Alessi fu il primo Presidente della Regione siciliana. Un grande uomo, un politico di razza, uno statista. Un uomo, un Presidente, per il quale lo Stato, in forza della leale collaborazione che è un principio formativo dei rapporti tra Stato e Regione, per come asserito dalla Corte Costituzionale, e per come dovrebbe essere tra due pezzi della Repubblica che vuole rimanere una e indivisibile, avrebbe potuto rendere operative le norme di cui agli art, 20, 21 e 31 dello Statuto che ho illustrato sopra.

Alessi sarebbe stato un Presidente della Regione nella sua interezza istituzionale e funzionale. Non un Presidente dimezzato. Quello che lo Stato non seppe e non volle valutare  che quella amputazione definì per sempre al ribasso l’ambito istituzionale e politico dei Presidenti successivi. Un Presidente che ha pieni poteri  è un  presidente “pesante”.

Una figura alta, nobile. Ci vuole coraggio, dirittura morale, per aspirare a quella carica appunto così “pesante” e piena di grandi responsabilità. Anche l’elettorato sarebbe stato condizionato, non solo le candidature, sottoposte ad una virtuosa selezione naturale. Invece la progressiva erosione dell’Autonomia ha preso la strada in discesa. La deriva coinvolse i parlamentari regionali la cui visione politica si concentrò sempre più nel particolare. Chiunque a quel punto poteva essere presidente. Ecco apparire sulla scena politica, accanto buoni politici, personaggi  meno responsabili, meno  alti.

Salvo eccezioni, il declino delle figure presidenziali è stato tragicamente  inarrestabile. Da figure scialbe alle  mezze figure, alle mezze calzette, ai delinquenti condannati con sentenze passate in giudicato, per finire coi cavalli di cartone.

Lo Stato aveva la grande occasione di restituire alla Sicilia la sua dignità politica e civile, ma ancora una volta scelse la via già battuta dai Savoia e dai loro Presidenti del Consiglio, Giolitti, il “Ministro della malavita” in testa, l’inventore dell’ascarismo.

Questo volevano le lobby del Nord e lo Stato e questo hanno ottenuto.

Non vi sembra che sia venuta l’ora di farla finita?

Franco Busalacchi
fonte: 
I Nuovi Vespri