Banche: dopo il suicidio del cliente disperato a rischio sono tutti i risparmiatori italiani
Sulla morte del cliente di una banca, suicidatosi dopo aver perso i risparmi a causa della cattiva gestione dell’istituto di credito, sono state scritte milioni di parole. Fiumi d’inchiostro che hanno esaminato il problema dal punto di vista sociale e legale. Come sempre in questi casi, è iniziato lo “scaricabarile” tra i soggetti coinvolti: le banche hanno detto che si sono attenute a quanto previsto dalla legge, il governo ha annunciato che farà “qualcosa” (ma senza dire quando e, soprattutto, cosa), la magistratura (nella persona del pm Alessandra D’Amore), ha aperto un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio, e la Commissione europea ha detto che i titoli emessi da alcune banche italiane potrebbero non aver rispettato le norme comunitarie.
Nessuno ha detto che la causa potrebbe essere la situazione non di una banca, ma di tutto il sistema bancario. Un problema, quello della “crisi” della banche, che è molto più complesso di quanto sembri. La sua origine sta nel fatto che ad alcune aziende, quelle chiamate “banche”, è stato concesso di lucrare sul nulla. Un commerciante, per vendere dei prodotti, è obbligato ad averli (e anche dove e come li ha pagati), un professionista può ricevere un compenso solo se fornisce in cambio servizi e un imprenditore deve i propri guadagni a ciò che produce.
Per le banche, la situazione è diversa: la stragrande maggioranza dei loro guadagni deriva dalla vendita di… niente.
Spesso a queste “aziende” è consentito fare affari e speculare vendendo il nulla. O, nella migliore delle ipotesi, offrendo al proprio cliente qualcosa che questo non conosce bene. È proprio su questo che si basa la critica dell’Unione Europea: ai clienti delle banche sarebbero stati venduti titoli di fondi comuni di investimento dei quali gli acquirenti conoscono poco. Troppo poco.
Questo modo di “fare soldi” (quasi sempre virtuali) ha molti difetti. Uno di questi è che, per funzionare, deve crescere sempre: gli investimenti non devono cessare mai e i clienti devono portare sempre più soldi.
Ciò ha fatto sì che molte banche, col tempo, siano diventate come drogate e “dipendenti” da questo modo di gestire quello che una volta era il risparmio dei propri clienti. E hanno cominciato ad offrire promesse sempre più allettanti, ma che, di contro, comportavano rischi sempre maggiori.
Che la situazione fosse questa lo sapevano tutti. A cominciare dalla Commissione Europea che, già nel 2012, denunciava che, nel triennio 2008/2011, gli Stati aderenti all’Unione Europea avevano speso circa 4.500 miliardi di euro per salvare le banche del Continente dal crac (da allora, la situazione è peggiorata).
Lo sapeva il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che, nel 2013, aveva lanciato l’allarme e aveva invitato le banche europee a rivedere il proprio “modello di business” e a ridurre la dipendenza dai fondi wholesale, affermando che, in poco tempo, sarebbero state costrette a ridurre i propri asset per un importo pari a 1.500 miliardi di dollari. Stima, quella del FMI, confermata da Bloomberg e da uno studio dell’agenzia di rating svizzera Indipendent Credit View.
Lo sapeva la Banca d’Italia che a settembre, in qualità di Autorità nazionale di risoluzione delle crisi nell’ambito delMeccanismo di risoluzione unico europeo, annunciò l’istituzione di una Unità di Risoluzione e gestione delle crisi. Una “crisi” causata proprio dal fatto che il margine di sicurezza, costituito dal capitale reale delle banche rispetto agli investimenti, si assottiglia sempre di più e, per contro, cresce il rischio che siano necessari interventi esterni per evitare il default delle banche.
Come confermato dall’analisi del tasso di copertura (o di provisioning), indicativo dei rischi potenziali, condotta daNadege Jassaud e Kenneth Kang del Fondo Monetario Internazionale, che confermerebbe che il tasso medio di provisioning delle principali banche italiane è sceso di sei punti percentuali rispetto al 2007. E, dato che un tasso di copertura basso significa un aumento dei rischi potenziali, avrebbe dovuto essere chiaro a tutti quali sarebbero state le conseguenze.
Anche il governo non poteva non sapere dei problemi legati al sistema bancario italiano. Lo confermano le numerose misure destinate ad aiutare gli istituti di credito: dal “bail in” alle “bad bank” fino agli aiuti concessi a molte banche (chi non ricorda i miliardi di euro di prestiti concessi a Mps?).
Un problema, quello del sistema bancario italiano, che non pare non riguardi solo pochi istituti minori (i cui nomi sono finiti sulle prime pagine dei giornali nei giorni scorsi, anche a causa dei rapporti di parentela tra un ministro e i vertici di una delle banche coinvolte). Riguarderebbe anche le banche più grandi. E se la crisi manifestatasi negli istituti più piccoli ha causato danni di miliardi di euro, non è difficile immaginare cosa accadrebbe se il problema si estendesse a macchia d’olio a quelli più grandi. Cosa, questa, tutt’altro che improbabile.
Secondo Kang e Jassaud, l’insufficienza della copertura finirà col deteriorare ulteriormente il sistema, in quanto, essendo costrette a mantenere i prestiti in sofferenza sui propri bilanci per periodi prolungati, le banche non potranno erogare nuovi finanziamenti. E poiché le sofferenze elevate aumentano anche i costi di finanziamento, in circostanze estreme, potrebbero anche spingere una banca al default.
Un rischio, quello derivante dalle sofferenze bancarie, che, secondo i dati del Centro Studi Unimpresa, ammonterebbe a quasi duecento miliardi di euro.
Ancora una volta, un problema prevedibile. Come dimostra il Texas Ratio (un indice generalmente usato per misurare la solvibilità di una banca rispetto ai suoi crediti deteriorati ed ai fondi disponibili) delle banche italiane. Negli ultimi sei anni, tutte le maggiori banche italiane hanno aumentato i propri investimenti in crediti “tossici”. Questo, nonostante i prestiti totali si siano ridotti considerevolmente. Il risultato è che molte di loro hanno visto aumentare il proprio Texas Ratio. Ebbene, il limite soglia generalmente è quando l’indice supera il 100 per cento. Per le prime dieci banche commerciali italiane il Texas Ratio medio è del 105 per cento (164 per il Monte dei Paschi seguito da Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banco Popolare, Banca Nazionale del Lavoro e, appena superiore a cento, Unicredit) (dati thebankerdatabase.com).
Se, fino a qualche anno fa, le Banche Centrali e gli Stati svolgevano il ruolo di garanti della correttezza degli istituti di credito, ora la situazione si è capovolta. Spesso sono i governi ad essere succubi della cattiva gestione e delle speculazioni finanziarie. Lo dimostra il fatto che, ormai da molti anni, continuano a pompare denaro fresco nelle ‘casse’ delle banche. Ma lo confermerebbe anche il fatto che nessuno, fino ad ora, ha informato i cittadini del fatto che molti fondi comuni rendono meno dei titoli di Stato: secondo una ricerca pubblicata lo scorso anno da Mediobanca i fondi comuni avrebbero provocato “una distruzione di valore pari a circa 86 miliardi di euro nell’ultimo quindicennio”, ha detto Fulvio Coltorti. Insomma, l’industria dei fondi continua a rappresentare un apporto distruttivo di ricchezza per l’economia del Paese. Un danno che, tenendo conto del premio al rischio, “aumenta a 155 miliardi”. Soldi che sono spariti dalle tasche dei risparmiatori italiani per riapparire in quelle di promotori, gestori, intermediari, e banche. In una parola, di quanti hanno propinato montagne di “titoli” spazzatura anche oltre il limite si sicurezza. Tanto, nel peggiore dei casi, sarà sempre possibile per le banche scaricare questi titoli in una “bad bank” o far pagare i danni ai propri clienti senza che nessuno dica niente.
Cosa accadrà nei prossimi giorni? Nessuno lo sa. Non si sa se la magistratura troverà le prove di un reato commesso dalla banca a cui il povero pensionato aveva affidato i risparmi di una vita. Né è dato sapere cosa farà il governo Renzi. Poche, però, sono le speranze dopo aver visto cosa ha fatto con la “bad bank” e con il “bail in”. Poche le speranze anche su cosa deciderà di fare la Banca d’Italia (che, a dispetto del nome, è proprietà delle banche, quindi…).
L’unica speranza è che a fare qualcosa per combattere questo modo di operare perverso siano le persone.
Che siano loro a vigilare sull’operato e a pretendere il rispetto dei loro diritti di clienti e di cittadini. E che decidano o meno se “dare” i propri soldi alle banche. Sì, perché forse la maggior parte dei “clienti” delle banche non sa nemmeno come sono stati male informati dell’utilizzo dei soldi che hanno “dato” alle banche, non sanno che, secondo quanto previsto dal Codice civile, quei soldi non sono più loro: diventano proprietà delle banche. Ma questo le banche si sono guardati bene dal dirlo ai propri clienti all’atto della stipula dei contratti di deposito…