La Libia è italiana, nessuno ce la riprenderà più
Tra un paio di mesi sarà passato un secolo esatto da quando queste parole furono pronunciate e scritte. Era il 1911 e dopo il bombardamento di Tripoli, Roma aveva il suo «bel suol d’amore» coloniale. Seguiva un saccheggio della popolazione a spese dei vecchi padroni turchi, con scene che tanto ricordano quelle al compound di Gheddafi di questa settimana. E, come gli occidentali di oggi, i nostri bisnonni erano convinti di essere liberatori molto amati dalla gente del posto.
«Sullo spigolo più avanzato del castello dei pascià, dove la bandiera della mezzaluna era stata abbassata, si sollevava un tricolore smisurato, il suggello definitivo della presa della Tripolitania: l’irrevocabile si compiva. Ora abbiamo sposato questa provincia, essa è terra d’Italia, come il Piemonte, come la Sicilia, come Roma: fino all’ultimo centesimo e all’ultimo uomo dovremo sacrificare con fermo onore perché nessuno ce la riprenda più».
Tra un paio di mesi sarà trascorso un secolo esatto da quando queste parole furono scritte. Cento anni ci separano da quel 10 ottobre 1911 in cui La Stampa (leggi) pubblicava la lunghissima corrispondenza del suo inviato di guerra, Giuseppe Bevione, che descrive la caduta di Tripoli, avvenuta alcuni giorni prima.
La Libia, come quasi tutto il Nordafrica, faceva parte dell’Impero ottomano e l’Italia aveva deciso di conquistarsi un posto al sole a spese del sultano di Costantinopoli. Le popolazioni locali, arabe, sembravano assistere con una certa indifferenza alla sconfitta dei loro dominatori turchi. A sbarcare per primi erano stati i marinai italiani della flotta comandata da Paolo Thaon di Revel. «La grandi caserme nuove, che fiancheggiano la piazza, furono visitate da un ufficiale e trovate in ordine perfetto. Molti arabi stazionavano sulla piazza ed osservavano le operazioni di sbarco. Nessuno fece manifestazioni ostili: al contrario tutti diedero ai marinai un benvenuto cordiale, e distribuirono strette di mano dicendo che amavano l’Italia ed erano contenti che gli italiani fossero venuti». Nel periodo di vuoto compreso tra la partenza dei soldati turchi e l’arrivo degli italiani era successo quel che sempre succede in questi casi: il saccheggio. «Gli arabi diedero il sacco al castello, ai posti di polizia, alle caserme, ai forti. Gli effetti di questo saccheggio sono spettacolari e si riassumono nel vuoto completo: in nessun ufficio governativo è rimasto uno spillo. Gli armadi, le sedie, le finestre, i letti, le biancherie, i tappeti, i vestiti, i candelabri, le porte, tutto fu portato via; anche i calamai e le penne furono rubate. Solo i libri, le carte e i registri furono lasciati, lacerati e sparsi sui pavimenti. Le tracce del saccheggio sono visibili ancora.
Per le strade bambini laceri portano fieramente fez fiammanti troppo grandi per le loro teste, rubati nei depositi militari; straccioni neri appaiono per la prima volta alla luce in bei vestiti nuovi di tela: sono le uniformi estive della fanteria, che si vendono in piazza per pochi soldi, gente che andò sempre scalza ha messo per la prima volta le scarpe, belle scarpe chiodate da truppa». I tempi cambiano e mutano anche gli oggetti saccheggiati: nel 1911 le scarpe, nel 2011 la 500 personalizzata di Gheddafi. Curioso notare come le icone del saccheggio siano spesso italiane. Ricordate l’iracheno che fuggiva dal palazzo di Saddam Hussein trasportando un enorme e kitschissimo vaso nero e oro? Si trattava di un oggetto realizzato a Bassano del Grappa. Ora è il turno dell’auto proveniente da Torino.
«A Tripoli, a tripoli!», canzone patriottica del 1911, eseguita nel ’73 da Claudio Villa
Le comunicazioni a inizio Novecento erano lente e il giornale pubblica i dispacci inviati dalla Libia alcuni giorni prima, talvolta senza rispettare un preciso ordine cronologico, semplicemente mandandoli in tipografia man mano che arrivano. Comunque i bombardamenti di Tripoli dal mare erano cominciati il 4 ottobre e l’ammiraglio comandante era sembrato prenderla con calma, anche perché i forti ottomani non disponevano di cannoni potenti come quelli delle navi italiane. «Il fuoco è stato fatto con le artiglierie di medio calibro», scrive il quotidiano romano La Tribuna, «perché non valeva proprio la spesa di mettere in opera i cannoni da 254 millimetri, ed è stato lentissimo, a intervalli lunghi, come se l’ammiraglio aspettasse da un momento all’altro di veder apparire la bandiera bianca della resa, perché si sa in tutto il mondo che i cannonieri italiani in proiettili non li sciupano», quasi che Thaon di Revel si preoccupasse di non scontentare troppo un qualche Giulio Tremonti del tempo andato.
Naturalmente è tutto un sottolineare che gli italiani non vogliono colpire le case e le moschee, ma soltanto gli edifici governativi, e non intendono mietere vittime tra la popolazione civile. Il che non impedirà di reprimere nel sangue un’insurrezione araba un paio di settimane dopo lo sbarco a Tripoli. In città viveva anche una numerosa colonia europea e il console tedesco ai affretta a far conoscere agli italiani che «durante il bombardamento non è stato procurato alcun danno agli europei né alle proprietà degli europei», come riferisce il New York Times. Il quotidiano americano scrive anche che «migliaia di razioni alimentari sono state distribuite ai cittadini affamati, molti dei quali hanno baciato le mani degli ufficiali italiani, invocando su di loro la benedizione di Allah». Niente di nuovo nemmeno qui: il bianco buono aiuta l’africano ingenuo e sprovveduto che lo accoglie con benevolenza. Né più né meno di quello che i bianchi buoni si aspettavano accadesse a Baghdad, Kabul e oggi, chissà, a Tripoli.
Alessandro Marzo Magno
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