Io non festeggio


Ci si avvicina inesorabilmente al fatidico 150° anniversario dell’unità italiana e credo sia giusto dare una occhiata a cosa ci sia veramente dietro questo evento che cambiò la vita di milioni di persone e delle successive generazioni.
A scuola ci siamo andati tutti, e mi viene da aggiungere “ahimè!”, di conseguenza sappiamo tutti come viene descritta la vicenda: i siciliani poveri ed analfabeti, attendono i liberatori piemontesi; essi pieni di compassione verso questo popolo martoriato, arrivano con mille temerari carichi di ardore patriottico; cacciano il tiranno borbonico, lasciando ricchezza e cultura.
È una visione romantica, un poco facilotta, ma d’altra parte se è resistita per più di un secolo e ancora molti la prendono per buona, evidentemente, hanno fatto bene a non dare spiegazioni che si basassero sui principi della logica e soprattutto della dialettica.

In questo articolo, vorrei dare voce proprio a coloro la cui versione si discosta, se non si oppone, a quella ufficiale.
Affiderei subito la parola ad un personaggio di spicco della politica italiana, cioè Antonio Gramsci, che ci dice che “…lo stato italiano era una feroce dittatura che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori sardi [leggasi “piemontesi”, n.d.a.] tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
Niente male come inizio, non credete? Ma facciamo parlare chi quei momenti li visse in prima persona, magari qualche illustre camicia rossa quale Nino Bixio, che contro ogni aspettativa sostiene che “la Sicilia sarebbe rimasta pacifica sotto i Barboni, se la rivoluzione non fosse stata ivi portata dalle altre provincie d’Italia, ossia dal Piemonte”; non solo, ma confermando quanto asserito da Gramsci, attesta in una seduta parlamentare del 1863, che “un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là, signori, e se volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione di sangue”.

Guarda un po’ da quale pulpito viene la predica!

Dopo Bixio non potevamo non chiamare in causa il nostro“eroe dei due mondi” che in una lettera del 1868, che egli avrebbe sicuramente preferito non venisse ritrovata, inviata alla “madre della Nazione” Adelaide Bono Cairoli, ammette che “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio!”.
Menomale, però, che la sua coscienza è a posto!

Francesco Crispi, lapidario: “La popolazione [“siciliana”, n.d.a.] in massa detesta il governo d’Italia, che, al paragone, trova più tristo del Borbone”.
E ciò la dice lunga se teniamo conto che in Sicilia, a torto o a ragione, ci furono quattro rivoluzioni contro i Borbone.
Ecco il diario di un organizzatore dello sbarco garibaldino, e a quanto pare pentitosene, il messinese La Farina:

  • 12 giugno: “Il governo sapendosi avversato dalla maggioranza dei cittadini, cerca farsi partigiani negli uomini perduti”.
  • 18 giugno: “Fanno leggi sopra leggi […] mettono le mani nei depositi dei particolari esistenti in tesoreria […] non trovando partigiani nel partito liberale, cercano farsi amici negli uomini più odiati e spregiati […]. La legge della leva così imprudentemente pubblicata e stoltamente redatta, già produce i suoi frutti: un grido d’indignazione s’è levato da per tutto […]. In molti Comuni sono avvenute delle vere sollevazioni”.
  • 28 giugno: “Io non debbo a lei celare che all’interno dell’isola gli ammazzamenti sieguono in proporzioni spaventose; che nella stessa Palermo in due giorni quattro persone sono state fatte a brani; e che tutto è stato disordinato e messo sossopra con una insensatezza da oltrepassare ogni limite del credibile”.
  • 29 giugno: “L’altro giorno si discuteva sul serio di ardere la biblioteca pubblica, perché cosa dei gesuiti: ieri il comandante della piazza, Cenni, ordinava di fare sgombrare le scuole. Si assoldano in Palermo più di 20.000 bambini dagli 8 ai 15 anni e si dà loro tre tari al giorno! Si mette la finanza della Sicilia in mano di quel ladrissimo e ignorantissimo B…! In una sola partita di cavalli requisita nella provincia di Palermo ne spariscono 200! Si dà commissione di organizzare un battaglione a chiunque ne faccia domanda; così che esistono gran’numero di battaglioni, che hanno banda musicale ed officiali al completo, e quaranta o cinquanta soldati! Si dà il medesimo impiego a 3 o a 4 persone! Si manda al tesoro pubblico a prendere migliaia di ducati, senza né anco indicarne la destinazione! Si lascia tutta la Sicilia senza tribunali né civili, né penali, né commerciali, essendo stata congedata in massa tutta la magistratura! Si creano commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti, come al tempo degli Unni”.
  • 2 luglio a Davide Morchio: “Non abbiamo nulla che possa somigliarsi ad un governo civile: non vi sono tribunali […] non ci è finanza, avendo tutto assorbito l’intendente militare; non v’è sicurezza, non volendo il dittatore né polizia, né carabinieri, né guardia nazionale, non v’è amministrazione, essendo state sciolte tutte le intendenze”.
  • 17 luglio ad Ausonio Franchi: “Garibaldi dichiara pubblicamente che non vuole tribunali civili, perché i giudici e gli avvocati sono imbroglioni; che non vuole assemblea perché i deputati sono gente di penna e non di spada; che non vuole niuna forza di sicurezza pubblica, perché i cittadini debbono tutti armarsi e difendersi da loro”.
  • 19 luglio a Giuseppe Clementi: “I bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e ammazzamenti, compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è caduta in mano di una banda di Vandali”.

Finalmente capisco da dove nasce, in Sicilia e nel meridione, l’inefficienza burocratica e giudiziaria, l’amoralità della classe politica e il clientelismo.
A conferma di quanto appena detto, cito il Deputato Cordova che in una seduta parlamentare del 1861 elenca i seguenti abusi:
1)” Negli uffici delle dogane di Sicilia furono nominate persone idiote e analfabete.
2) In Palermo i doganieri rubano, ed in Messina gli impiegati sono uccisi, occupando il loro posto gli uccisori.
3) In Siracusa gli impiegati sanitari degli ospedali sono il quadruplo del numero degli infermi.
4) Gli impiegati in Sicilia sono enormemente moltiplicati e, sotto questo aspetto, era assai migliore il governo borbonico, il quale per la Luogotenenza spendeva novecentomilalire meno del governo piemontese.
5) Si danno tristissimi esempi al popolo e questo impara il male dai governanti…”
L’ultimo punto è abbastanza eloquente!

“Il Contemporaneo”, giornale di Firenze, di quel periodo, ci da una statistica di soli nove mesi dell’operato dell’esercito savoiardo nelle province meridionali:
“Morti fucilati istantaneamente: 1.841; morti fucilati dopo poche ore: 7.127; feriti: 10.604; prigionieri: 6.112; sacerdoti fucilati: 54; frati fucilati: 22; case incendiate: 918; paesi incendiati: 5; famiglie perquisite: 2.903; chiese saccheggiate: 12; ragazzi uccisi: 60; donne uccise: 48; individui arrestati: 13.629; comuni insorti: 1.428 “.
E all’estero come venne visto il Risorgimento italiano?

Benjamin Disraeli, alla Camera dei Comuni del parlamento inglese, nel 1863: “Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle del Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti”
Caro Benjamin, dopo quasi 150 anni, siamo ancora qui a chiedercelo!

Sempre al parlamento inglese e sempre nello stesso anno, il Deputato McGuire ammette l’influenza inglese negli avvenimenti risorgimentali: “Limitarsi cioè ad impe­gnare il governo inglese nel nome della comune uma­nità, perché s’interponga a prevenire la continuazio­ne delle atrocità che si commettono nelle Due Sicilie, delle quali il medesimo governo è in gran parte respon­sabile, per avere col peso della sua influenza fatta tra­boccare la bilancia a prò del Piemonte, e a danno del giovane re Francesco II, lasciandolo fra le mani dei traditori. […] Per me, io non credo nell’unità d’Italia e la ritengo una smodata cor­belleria. L’Italia è come un castello di carte, al primo urto sicuramente andrà in pezzi. Voi potete piuttosto sperare di unire le varie nazioni del continente europeo in una sola nazione che unire l’Italia del Sud a quella del Nord, e rendere i napoletani contenti di vivere sotto il giogo di un popolo che disprezzano come barbaro, ed odiano come oppressore”.

Sempre nel 1863, ma stavolta nel parlamento spagnolo, il Deputato Nocedal sentenzia: “L’Italia campo vastissimo di esecrabili delitti; l’Italia paese classico d’imperiture memorie, dove oggi giac­ciono prostrati al suolo e conculcati tutti i diritti; l’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato liberalismo si stanno sbarbicando dalla radice tutti i dritti, manomettendo quanto vi ha di santo e di sacro sulla terra… Italia, Italia! Dove sono devastati i campi, incenerite le città, fucilati a centinaia i difensori della loro indi­pendenza!”.

In un diario di Fè’dor Michajlovic Dostoevskij, per il periodo maggio-giugno 1877, ritroviamo tutto il dispregio nella nuova creatura unitaria: “[…] per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un ‘idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno dì second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”

Leggendo queste testimonianze sono sicuro che molti diranno che in ogni rivoluzione c’è uno spargimento di sangue, ma ciò è necessario per il benessere successivo; vediamo se questa regola vale anche in questo caso, chiamando in causa, ad esempio il Procuratore del re, a Sciacca, nel 1906, alla inaugurazione dell’anno giudiziario:
“Si gridi pure, e gridiamo anche noi con tutte le nostre forze, contro la grave delinquenza che ci affligge. Ma quando si sostiene che ciò dipende dal fatto che la miseria e l’ignoranza sono attaccate alla nostra terra, che noi siamo sospettosi, violenti, ribelli, che in quarant’anni di vita nazionale abbia­mo progredito ben poco di fronte alle regioni d’Ita­lia, lasciate ch’io lo affermi: anche in questo non si arriva a denigrarci, ma si legge nel libro della sto­ria l’atto di accusa contro i nostri millenari sfrutta­tori; non si rileva la causa dei nostri mali, ma si mettono soltanto a nudo i nostri dolori.

E cosa dice il fatto che la delinquenza dell’Iso­la è alta di fronte a quella delle altre regioni del­l’Italia centrale e settentrionale, se non che dopo aver perduto i nostri padri e i nostri fratelli sui campi di battaglia per l’indipendenza e l’unità d’Italia, siamo stati poi trascurati, spesso abban­donati, ingannati sempre?

Che cosa ci dice tale dislivello, se non che lo Stato, invece di mettere anche noi nelle condizioni di potere progredire dando agio alla nostra indu­stria agraria di sviluppare, aprendo nuovi sbocchi ai nostri prodotti, fornendoci di strade, di ferrovie, di porti, ha, in 40 anni di vita unitaria, danneggiato le piccole proprietà con un fiscalismo crudele, raf­forzato con i contratti agrari il latifondo, imposto tributi sproporzionati alle nostre risorse? E che, do­po averci fìnanco contesi i tre milioni spettanti alle nostre Università, ci ha ingiuriato volentieri, man­dando fra noi come in un luogo di pena, i funzionari puniti, e quindi senza quella autorità indispen­sabile per infondere nello spirito pubblico la fede nella giustizia, e ci ha anche tormentati ingerendosi per fini di politica personale, più o meno egoistica, in tutte le amministrazioni affermando, cosciente o incosciente, la prepotenza della mafia?”

E questo è ciò che ebbe a dire Giuseppe Alessi, il primo Presidente della Regione Siciliana, in una conferenza su Mafia e potere politico, tenutasi a Catania nel 1968:
“Io ritengo responsabile primario del mondo mafioso lo Stato, quello stesso che in Italia, dai giorni dell’Unità ad oggi, ha dato la dimostrazione legislativa ed amministrativa dello spregio della legge. Se mafia vuol dire extralegalità, rifiuto della legge, sostituzione del fatto imperioso e prepotente alla norma e al rapporto giuridico, se la mafia vuol dire tutto questo, e contemporaneamente si considera la storia della nostra Isola dal plebiscito ad oggi, ci accorgiamo che si tratta di una sequela di sopraffazioni in cui lo Stato è il primo ad affermare l’inutilità della legge, l’offesa alla legge.”

Nonostante ci sia tanto altro da dire, concluderei l’excursus con questa riflessione di Sidney Sonnino, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia:
“La Sicilia lasciata a se troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, l’immensa ricchezza delle sue risorse. Ma noi italiani delle altre regioni, impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo legalizzato l’oppressione esistente, ed assicuriamo l’impunità all’oppressore”.
Al termine di questa carrellata di testimonianze, si evince come a distanza di 150 anni non sia cambiato nulla, potendo dire di vivere ancora nel 1860.
Dopo aver letto questo articolo, avete ancora voglia di festeggiare? Sicuramente no!

Ritengo che lo Stato italiano, dovrebbe, dichiarare il lutto nazionale e porre le scuse ufficiali al popolo siciliano e meridionale, altrimenti sarà una ulteriore occasione persa per smentire quanto detto.

Marcello Russo

BIBLIOGRAFIA

– Alianello Carlo, “La conquista del sud. Il risorgimento nell’Italia meridionale”. Rusconi Libri, Milano 1994.
– Blondet Maurizio, “Il Risorgimento visto da un nobile irlandese: le ombre del governo sabaudo”, L’Avvenire, 06-08-2000.
– Del Boca Lorenzo, “Maledetti Savoia”, edizioni Piemme Pocket, Casale Monferrato, 2001.
– Garretto Giuseppe, “Realtà siciliana”, Giànape Editore, 1967.
– Pellicciari Angela, “Garibaldi rovina della Sicilia”, La Padania, 27-10-2001.
– Turco Natale, “L’essenza della Questione Siciliana. Storia e diritto 1812-1983”, Centro Studi Storico-Sociali, 1983