Lo spasimo dell’alluvione
L’alluvione che nella notte del 1° ottobre ha devastato la periferia sud di Messina, dal litorale di Scaletta Zanclea salendo su tra le colline di Giampilieri, Pezzolo, Altolia, Molino, Giudomandri, Santo Stefano con il suo tragicamente reale carico di vittime e di distruzioni, suona oggi come la metafora di uno spasimo, la rappresentazione visiva della ferita mortale di una terra che ormai agonizza nell’incuria dei luoghi, nell’incapacità dei suoi responsabili, nello smarrimento di valori e ideali di appartenenza identitaria ma soprattutto nella mancanza di dignità dei suoi governanti.
Quante volte da queste stesse pagine abbiamo cercato di sensibilizzare chi ci legge della difficoltà che incontra chi, come noi, è partito, è emigrato, chi cioé è dovuto partire dal luogo in cui è nato per trovare nel nord lontano vuoi quelle possibilità di lavoro che la sua terra non gli sapeva offrire, vuoi quegli aneliti di libertà, quella volontà di fare che veniva osteggiata da chi invece pervicacemente rimaneva sull’Isola.
La tragedia dell’alluvione ci getta nella disperazione del giorno dopo, tanto che ci sembra di essere arrivati al disastro finale, all’atto conclusivo dell’Isola, dopo la corsa all’oro, la rincorsa all’eldorado, la conquista dello spazio vitale. Ci sembra di essere arrivati oggi alla vigilia della distruzione fisica, dopo aver vissuto quella morale.
E come ogni giorno dopo ci interroghiamo sulle cause del disastro, analizziamo i dubbi che ci pervadono, ma non permettiamo a chicchessia di parlare della nostra tragedia e di addossare a noi siciliani sospetti di illegalità, di abisivismi o peggio ancora incapacità.
Ricordiamo Firenze, la Valtellina, la stessa recente esplosione di Viareggio: abbiamo forse avanzato sospetti di incapacità, di illegalità…
Forse avremmo potuto anche farlo, ma davanti alla tragedia non si possono fare i distinguo tra meridione e settentrione, non ci si puo’ chiedere di chi sia la colpa.
E non vogliamo oggi che Bossi o Lombardo o Berlusconi provino a dare le colpe.
Non lo consentiamo nel nome di quelle vittime innocenti, non lo consentiamo perchè dovremmo chiuderci a quadrato, tutti insieme, noi siciliani, per rimboccarci le maniche, spalare quel fango maledetto, parlare della nostra terra, soli tra di noi, in privato come si fa fra parenti quando scompare qualcuno caro e si vuole vivere quel proprio dolore fra chi quel dolore lo capisce e lo puo’ condividere proprio perchè comune.
Il territorio di Messina, magnifico per posizione, incantevole nella magia dello Stretto, nei giochi di Fatamorgana, nelle onde di Scillaecariddi, pero’ non esite piu’.
Lo diciamo da tempo.
La Sicilia scompare, Messina non esiste piu’, sconvolta dal cemento, dall’incuria, dalla maleducazione.
Messina, che si cullava sullo stretto con i peloritani sulle spalle, quasi a spingerla verso i lidi, ha smesso di crescere e di esistere negli scandali dell’Università, nella definizione di verminaio, nel fondo della speciale classifica di vivibilità raggiunta tra le città italiane, nel suo lastricato di pietra lavica divelto per fare posto ai binari di un improbabile tram.
Messina, la capitale aragonese di Alfonso il magnanimo, Messina delle taverne del patriota Balsamo, Messina che precorreva fatti ed idee e iniziava la sua liberazione da re e tiranni prima di qualunque altra pur celebrata citta.
Messina sede universitaria unica, Messina dell’Accademia della Scocca, Messina cenacolo dell’Ospe, Messina di Pugliatti, Quasimodo, Migneco, Vann’anto’, Messina , ultimo porto da e per le Americhe, non esiste.
E se l’alluvione l’ha solo lambita, eppure l’ha ferita gravemente perchè Giampilieri, Scaletta, (oh tempora!), sono diventati tessuto metropolitano, sono essi stessi Messina nel bene e nel male.
Parliamo di un territorio stravolto dall’abusivismo formalizzato come pratica corrente, parliamo di un territorio una volta costretto nella striscia del litorale che anche nei nomi anticipava il divino, Paradiso, Contemplazione, Pace; territorio che oggi si è allargato verso monte erodendo come vorace animale colline e alture ombreggiate dalla macchia mediterranea che non era gratuito corollario di verde inutile, ma utile e irrinunciabile argine allo smottamento del terreno, alla friabilità di colline troppo vicine alle spiagge bianche.
Alberi e montagne oggi scomparsi per fare posto alle case degli uomini, casermoni e condomini di cemento alti sulle colline pur in un territorio ancora sottoposto a vincolo di edificabilità antisismica. E in questa opera pantadistruttrice l’uomo ha cambiato il profilo delle montagne, fatto scomparire il corso dei torrenti, otturato il loro greto offrendo pero’ ai siciliani piu’ furbi vaste aree da urbanizzare con costruzioni di ogni tipo e di ogni colore, unite dal sinonimo comune del basso prezzo, bassa qualità e criminale concessione edilizia.
Ventottodicembre messinese ripetuto nello spazio di una notte di pioggia, una notte già toccata dalla scomparsa di un uomo, una notte che amplificava la tragedia di una famiglia, nei morti e nei dispersi di mille famiglie.
La cronaca di quella notte si è incrostata nell’attualità.
Un’attualità matrigna con la Sicilia, con i maggiori quotidiani che, dopo soli due giorni dal suo accadimento, situavano a partire da pagina 18 (il piu’ generoso), le notizie della tragedia e questo mentre erano ancora in corso le ricerche di povere vittime.
Un’attualità che ha portato il Presidente del Consiglio a sorvolare le zone colpite, il capo della protezione civile a parlare di irresponsabilità, cosa che non ha fatto in occasione del disastro di Viareggio, case costruite a ridosso della ferrovia, un povero sindaco superato dagli avvenimenti.
Un’attualità che non ha concesso ai morti di Messina lo stop delle ricreazioni, l’onore del minuto di raccoglimento nel corso delle partite del campionato di calcio, un’attualità che non ha visto il Presidente della Repubblica a Messina per presenziare ai funerali solenni perchè… aveva la caviglia ferita.
Un’attualità che riferisce del Papa che accenna soltanto ai morti di Messina dopo essersi invece soffermato prioritariamente sulla tragedia delle filippine quasi a ricordarci che i morti siciliani danno fastidio, sono morti di seconda categoria, difficili da situare in un panorama che rifiuta la Sicilia.
E in tutto questo noi siciliani siamo i soli colpevoli: abbiamo sempre delegato ad altri le nostre cose, non vogliamo svegliarci e odiamo chi tenta di farlo.
Ora aspetteremo le case di paglia, tipo roulotte abruzzesi, come la dovuta elemosina di uno Stato che non ci vuole né ci rispetta.
‘U Missinisi