NEI DINTORNI DELLA MEMORIA
Bruxelles, 04 Maggio 2001
Ora può oltrepassare le nuvole, sfiorare i giardini
del vulcano, sovrastare orti, vallate, trazzere,
sentieri di capra, stradoni, casolari e gebbie e
cristiani e planare sulla pianura che si allarga alla
vista nel sicomoro che rinnova la stagione,
nell’impossibile ficodindia, nelle siepi di
intrecciato mirto, nelle macchie di ginestra, nei
rodendendri scarlatti, nei gelsomini mielati.
L’aeroplano comincia la sua discesa sull’Isola. Può
vederlo il mare colore del vino, può vederle le barche
finalmente mollate dagli scalmi nella marina, può
vederle le case dalle tegole consunte dal tempo, può
vederle le chiese e le piazze dell’arte che fugge e,
nelle volte e nelle spirali di paura, atterrisce, può
vederlo alla fine l’approdo dal lungo andare. Ma
asciuga la fatica, consola l’amaro sapore della
lontanza il rumore dell’Isola, cantilena che ancora
illude, favola incantata che riconosce nella
confusione del tempo che passa. Vagheggiata nel nord
pesante, nelle piogge infinite e avvilenti, riscalda
ora la mente, aspetta, e mentre rallenta la corsa, di
nuovo generosa come amante dimenticata, confonde la
vista delle cose note, l’ansia, brilla per un attimo
nella memoria, nella calma irreale dell’arrivo, nella
pausa che al progresso deve il fermo di motori e
turbine, il viaggio a ritroso.
Riporta al cuore il
lungo cammino, se arriva da lontano e si affanna nella
memoria di perdute cose. Non serve cercare. Come
ossimoro continuo, dattilo incantato, ti ritrovano
agli angoli delle strade, nelle colline depredate,
nelle spiagge spoglie dagli antichi amici, nella
desolazione e nel caos dell’Isola che credevamo
nostra, le contraddizioni. Così l’altopiano di olive
saracene, affacciato sul mare del Cavuso, non brilla
più nelle azzurre argille ma langue e si dispera tra
pietre, cespugli di improbabili erbe, sassi e
solitudini.
Ti spinge il vento di un solitario
tramonto sul limitare dell’abisso e immagini il mare
africano nelle bolle spumeggianti di salnitro, ma è
solo fantasia. Non restano più sabbie candide, solo
pontile distrutto dalle onde, macerie del Porto di
Girgenti, una volta luce e frenesia, ormai metafora
della fine, come il contorto tronco, il pino di
Pirandello, vendicato dal cielo agli uomini che non
sanno conservare la memoria delle cose. E confonde la
valle dei Templi l’orizzonte di cemento e trafigge
l’assorto mormorio del vento tra i pini nell’oratorio
di Filattete e nel Tempio di Giunone. Saldato il conto
col tempo, adesso solo cemento e distruzione.
Potevi
sentirli se volevi i rumori del tempo, potevi
afferrarle le ombre dei Dioscuri, nelle serate di
maggio quando la campagna si vestiva a festa.
Oggi
senza anima tutto è impossibile; ha liberato la
coscienza e fa risuonare sul selciato l’urlo il
licantropo, beffeggiato dall’uomo che non crede più ai
miti. Plana allora sul promontorio di Polifemo
l’immaginazione, dove il castello mamertino si slancia
per cercare le figlie del Dio sul mare dove volano
bianchi gabbiani su case bianche di calce e su
terrazze di cristallo. Nel vociare della sala, fumo
orientale nelle pareti, i normanni parlano della città
dei bisogni alla gente riunita…… Il primo
parlamento siciliano.
La riprova che avevamo insegnato
al mondo ed ora non sappiamo neanche imparare.
Ma le
ciminiere e i fumi del porto appestano l’aria e
confondono il cielo: riporta la raffineria l’oggi
nella parentesi dell’immaginazione.
Abbiamo pagato al
progresso della nostra Isola il prezzo della
lontananza, seguiamo attoniti le decisioni di
sanatorie contro gli abusivismi, il progetto di
improbabili costruzioni che uno smottamento del
terreno rende inutilizzabili, lasciamo sugli alberi
frutti che nessuno vuole più raccogliere, abbandoniamo
il verde per la plastica, costruiamo alveari di
cemento, stravolgiamo il corso delle acque, non
crediamo più alle storie incantate di Morgana e
Colapesce ed allora, finiti i miti ci restano le
fughe, gli esodi, i viaggi a-contrario, verso il nord
lontano dello spaesarsi, dell’amaro “pane a rompere”.
Allora il ritorno diventa sempre meno eroico, meno
voluto, diventa allontanamento, sempre non valore e
sempre più delusione. Puoi fermarlo il ferry-boat se
vuoi, per arrestarti negli occhi di madre, ma se
sposti l’immaginazione, resta fitto il dialogo con le
ombre, che non possono più raccontarti e fuggono
lentamente in corteo, con i nostri sogni e lungamente
ci dicono addio.
EUGENIO PRETA