IL LIEVE FASTIDIO
Bruxelles, Febbraio 1999
Molti lettori criticamente troveranno queste pagine presuntuose e prepotenti perché enfatizzano la Sicilia, ma soprattutto danno valore a quell’essere siciliano, quel male oscuro che esagera luoghi e personaggi, che crea un mondo e nello stesso tempo lo isola dagli altri.
“… I giovani cercano di imitare, i vecchi non sanno che ripetere… Perchè cambiare? Stiamo così bene…”.
Quando una società diviene troppo intelligente in rapporto alle sue strutture politiche bisogna saper proporre qualcosa di nuovo. E noi abbiamo proposto qualcosa di nuovo: la partenza.
Apparteniamo a queIla schiera numerosa, purtroppo, di siciliani che sono dovuti partire, che hanno dovuto ” spaesarsi ” letteralmente per trovare quello che cercavano, chi un lavoro, chi semplicemente un’altra dimensione, un’identità nascosta. Per questo spesso apriamo il nostro animo alla nostalgia come qualcosa che possiamo rinnegare ad ogni momento ma che ci culIiamo dentro come lieve fastidio che poi non fà così male….
Molti hanno trovato un lavoro, sono riusciti a costruirsi – con mille sacrifici – quella casa che nell’immaginario collettivo ha sempre significato il luogo sicuro, la “rrobba”, la sicurezza e il riparo al rovescio degli eventi. Uno “scendere e salire le altrui scale” che se ha portato al possesso di una casa, ne ha stravolto il significato, gli ha dato uno strano sapore per il semplice fatto che non poteva sorgere dove avrebbero voluto ma dove il destino aveva invece stabilito che dovessero vivere.
Lontano dal sole e da quell’aria salmastra che puoi sentire persino nei paesi dell’ entroterra, lontano dalle brezze dei mari che circondano l’isola, lontano dai sapori delle stagioni, ma soprattutto lontana dai genitori, dai fratelli, dagli amici, sempre più distanti, sempre meno numerosi.
E hanno pagato un grosso pegno abbandonando il paese in cui avevano imparato le regole elementari della vita, i suoni, i colori ed i sapori. Hanno però curato quel lieve fastidio, la nostalgia. E lo hanno alimentato con frequenti ritorni e altrettanto frequenti partenze che hanno ripreso quel filo di emozioni rimasto a mezz’aria. Sono rimasti però ignorati, i loro sacrifici non sono stati più riconosciuti nemmeno nella loro stessa famiglia.
Hanno cancellato, il giorno stesso della loro partenza, e con la loro partenza, la parola assistenza, la logica assistenziale che fa morire I’Isola, e che ancora oggi va tanto in voga presso i loro fratelli più pigri e meno coraggiosi che non vivono di lavoro ma di sole, mare e parole fritte.
Come quelle raccontate da chi va a cercarli per poter ottenere il voto e poi puntualmente finge di non conoscerli più. Ma sono riusciti a rimanere a casa loro, sono rimasti nel posto in cui sono nati, possono incontrarsi ogni giorno, non hanno cognizione del vuoto. Vuoto che non capiscono come invece si stia tramutando in una penalizzazione per tutti i siciliani indistintamente: chi vive nell’Isola e chi invece se ne è andato.
Gli uffici non funzionano, i funzionari si rifiutano di operare, nessuno controlla. La gente non capisce più. Figurarsi noi che viviamo lontano! Il ricordo certamente è struggente, ma ha bisogno anche di adattarsi alle mutate esigenze. La Sicilia è cambiata. Anche morfologicamente. Dove c’era una collina, un campo di agrumi c’e ora una superstrada veIoce. È il prezzo che bisogna pagare al progresso. Ma perché il progresso sia effettivo c’è bisogno di rivedere tante cose.
Prima fra tutte, bisognerebbe ricordare ai nostri emigrati che cullano “quel lieve fastidio”, che oggi in Sicilia 18 imprese artigiane chiudono giornalmente i battenti, in un territorio caratterizzato dalla scarsa dinamicità dei mercati, dalla difficoltà dei trasporti (le ferrovie al nord hanno triplicato i binari, mentre in Sicilia si viaggia ancora a scartamento ridotto, che vuol dire un binario) strade e autostrade non sono proprio veloci se per andare da Messina a Palermo non bastano 4 ore e da Trapani a Marsala almeno due.
Non ci sono state assistenze ma rapine, sfruttamenti, esasperate clientele. Non logiche di impresa ed esigenze di mercato bensì il principio del “prendi i soldi e fuggi via”.
Così abbiamo costruito cattedrali nel deserto con i capitali dello Stato e della Regione, molte volte compiacenti, evitando, forse volutamente, di gettare le basi per un futuro programmato, di costruire una moderna mprenditoria che sappia far fronte alle sfide del III° millennio che, bene o male, coinvolgeranno anche la nostra Isola.
Mancano i servizi e le strutture. Circondata dal mare, la Sicilia non possiede un solo porto commerciale. Colma di tesori architettonici non riesce a dare impulso al turismo che potrebbe essere veramente un plus valore economico.
Non si riescono a sfruttare, anche per carenza di informazione, quei fondi CEE che hanno invece fatto prosperi e moderni altri paesi come Spagna e Portogallo.
I giovani corrono ancora dietro all’impiego pubblico sicuro, nel quale sia possibile anche non lavorare. Mafia, criminalità, usura sembrano essere le attività occupazionali, ma più ancora sembra vincente la mentalità del “lasciar passare”.
Purtuttavia restiamo fiduciosi.
Tutti noi, lontani, vorremmo un segnale che ci dimostrasse che le cose stiano veramente cambiando.
Cosí lanciamo una provocazione: perché non fare nostra, della Sicilia, la proposta di eleggere presso l’Assemblea regionale rappresentanti eletti all’estero? Perché non dimostrare così alle autorità nazionali che la Sicilia vuole effettivamente tenere in considerazione i suoi figli che vivono lontano?
Perché non far sì che quel “lieve fastidio” che ci curiamo in fondo a noi stessi faccia un pò meno male?
Eugenio Preta