Ecco perché voterò NO a questa Devolution
Riceviamo dalla giornalista veneta Rosanna Sapori un articolo sulla devolution che volentieri pubblichiamo perché ci appare una critica interessante in quanto dall’ “interno” dello stesso mondo federalista.
“Quando
si parla di devolution, si cita spesso e volentieri l’esempio scozzese. Ma quali
sono le condizioni che hanno portato la Scozia ad affrontare la devolution? Il
referendum dell’11 settembre 1997 ha sancito la necessità di portare a
compimento, attraverso la creazione di un Parlamento, quel processo di
riconoscimento dell’identità scozzese. Già il 12 settembre il premier Blair
dichiarava che il risultato referendario rappresentava un ineluttabile impulso
alla realizzazione dello Stato indipendente della Scozia e tenendo fede alle
promesse elettorali, concesse appunto a Scozia e Galles la possibilità di
ottenere speciali forme di autonomia
Di devolution si parla spesso, e a sproposito, anche in Italia. Da
noi vige il vezzo delle parole inglesi e americane usate a iosa forse solamente per il suono che
emettono quando le si pronunciano: welfare state, governance, authority,
antitrust e appunto devolution.
Di quella tragicomica farsa che da più
di vent’anni viene recitata sul palcoscenico della politica italiana, denominata
“La Grande Riforma” si è chiuso da poco un nuovo atto. Quello che si è visto nel corso di un
ventennio è stato un dibattito schizofrenico e inconcludente tutto orientato a perdere tempo per
trovare quelle formule che unissero il più possibile di cambiamenti di facciata
e il minimo possibile di trasformazioni di sostanza. A questa farsa ha assistito
impotente un Paese letteralmente affamato e bisognoso di una radicale riforma
dell’assetto costituzionale, invecchiato e responsabile dei mali peggiori dei
quali ha sofferto la Prima Repubblica e che continuano tutt’ora: spreco
colossale di risorse, corruzione, parassitismo, perdita di competitività
internazionale per le imprese.
Con la riforma del Titolo V della
Costituzione – approvata in fretta e furia dalla maggioranza di centrosinistra
alla fine della scorsa Legislatura e poi dal referendum confermativo – si è
creata una situazione di caos, un puzzle a incastro di competenze, un insieme
indistricabile di materie concorrenti Stato-Regioni e una conseguente pioggia di
ricorsi alla Consulta. Le conseguenze non potevano che essere l’avvio del
dissesto del sistema istituzionale e la paralisi dell’azione amministrativa, che
tutti i cittadini hanno incominciato a pagare, accorgendosi dei costi chi più e
chi meno, dato che i costi decisionali hanno provocato dissesti, ritardi,
decisioni mancate e disfunzionalità.
La “devolution” è stata la prosecuzione
di questa tendenza. Si tratta di un’altra forma di decentramento (poche materie
e marginali delegate alle Regioni, legate però finanziariamente al governo
centralizzato) nel tentativo di mettere ordine al complicato intreccio di
competenze lasciato in eredità dalla scardinante riforma del Titolo V.
Quello
che emerge è un ibrido tragicomico, frutto di compromessi e di cedimenti su
questioni basilari. Dei 52 articoli riformati dal Ddl costituzionale approvati
dal Senato in seconda lettura – chissà come mai a ridosso delle elezioni
regionali – è riemerso lo spostamento verso il governo centrale di molte materie
(alcune delle quali sottratte alle competenze concorrenti). Se ad esempio
l’assistenza e l’organizzazione sanitaria saranno affidati alle Regioni, lo
Stato dovrà preoccuparsi delle norme generali sulla tutela della salute. In
poche parole le Regioni non possono affatto concorrere alle decisioni degli
organi centrali dello Stato. L’elenco delle materie sulle quali prevale la
legislazione centralizzata è lungo. Lo Stato da Roma dovrebbe occuparsi perfino
dell’esercizio di arti e professioni che prima invece era attribuito alla
competenza concorrente. Anche sull’ordinamento sportivo nazionale interverrà lo
Stato, mentre alle attività sportive e ricreative, compresi impianti e
attrezzature, dovranno pensare le Regioni. La tanto decantata Polizia regionale è soltanto
amministrativa, così come le norme sull’istruzione che sono e rimarranno di
competenza ministeriale. Nemmeno nel sistema tedesco, caratterizzato da una
forma di regionalismo unitario in decadenza, si ha una simile concezione
dell’istruzione pubblica.
Il cosiddetto “Senato federale” composto da 252 senatori eletti
insieme ai consigli regionali e provinciali non ha diritto di voto, una sorta di
Camera vuota, senza forza e senza potere. Ma allora a cosa serve?
Si
sono anche spesi numerosi proclami sulla diminuzione dei parlamentari che
passerebbero da 945 a 756, si è fatto credere ai cittadini che con questa
riduzione ci sarà un risparmio notevole per le casse dello Stato. E’ vero,
peccato però che con un’altra legge si sia data alle Regioni la possibilità di
aumentare la composizione dei consigli regionali, in alcuni casi aumentando il
numero dei consiglierei del 50%. Insomma la politica ha un suo prezzo ed i
professionisti della politica non intendono rinunciarvi, anche questo con un
sistema federale è assolutamente incompatibile. Ne sono espressione l’enfasi
posta sull’interesse nazionale e la sua riduzione a strumento per
annullare leggi regionali considerate lesive di questo principio e
l’introduzione della “clausola di supremazia” che consente allo Stato di
sostituirsi ai poteri locali. Anche se questo “interesse nazionale” è in qualche
modo sempre esistito, adesso diventa assai più micidiale, perché vengono
stabilite procedure e modalità precise per il suo utilizzo: nel giro di 30
giorni una legge regionale può praticamente essere cancellata per volontà dello
Stato sulla base di una formula estremamente elastica.
Sotto l’”interesse
nazionale” si può mettere e intendere tutto. Una riforma come questa non solo
non assomiglia affatto a una riforma “in senso federale”, ma nemmeno alla
devolution inglese alla quale pretende di ispirarsi. Esistono riferimenti di
sorta nella letteratura e nella realtà dei sistemi federali esistenti che
contemplino un sistema del genere? Ovviamente no, questa riforma non dà
naturalmente vita ad alcun sistema federale. Un secondo problema fondamentale di
queste pseudoriforme è quello di non fare in alcun modo chiarezza sui conti,
sulla provenienza e sulla destinazione delle risorse. L’accento posto
sull’interesse nazionale deriva proprio da qui: dal fatto di poter godere ancora
per molto tempo, da parte dei beneficiari del sistema, dell’impossibilità di
fare chiarezza sulla contabilità nazionale, sull’origine delle risorse
prelevate, sul dare e sull’avere. Un testo contorto e farraginoso, che questo
non faccia parte di una ben architettata strategia da parte di politici che
hanno sempre avuto tutto da guadagnare dalla centralizzazione del potere, è
molto dubbio.
Una delle cose peggiori però che questa classe politica ancor più
della precedente, indipendentemente dagli schieramenti formalmente contrapposti,
lascerà in eredità alle giovani generazioni sarà, dato il facilmente prevedibile
e inevitabile fallimento di questa riforma, il discredito che in Italia cadrà
sul Federalismo, ritenuto come qualcosa di irrealizzabile o fonte di gravi
problemi. Il termine Federalismo è stato sganciato totalmente dal suo
significato e dalla realtà alla quale in tutto il mondo fa riferimento. Questa è
una delle cose peggiori che si possano provocare, perché non solo non stimolerà
i giovani a studiarlo, ma li condannerà a cercare ancora per decenni rimedi ai
guasti di uno Stato accentrato e fortemente burocratizzato che produce
quotidianamente spreco e ingiustizie, disfunzioni, corruzione e
criminalità.”
Rosanna Sapori
Giornalista
Conduttrice “Pronto chi parla?”
Telenordest – Padova