La nuova civiltà “covidusiana”
Con l’epidemia Covid e con l’onnipresenza di questa realtà nei media e nelle reti sociali, sembra che un nuovo linguaggio si stia imponendo nel lessico corrente.
Possiamo ricordare, ad esempio, il «distanziare» e il «faccia a faccia» impiegati fino alla nausea, così come malattia e virus, senza mai poterli identificare esattamente, il test asintomatico e altre sequenze senza parlare di mascherine, guanti e tanto altro, come se gli altri termini si fossero eclissati, in una specie di contrazione spazio-temporale.
Nuovi comportamenti si sono installati nel nostro quotidiano in una maggioranza di cittadini: finita la civiltà romana e con essa finite quelle effusioni generose che dimostravano la gioia di ritrovarsi in famiglia e tra gli amici.
Ormai si saluta soltanto con i gomiti piegati e, anche nell’intimità familiare, la mascherina di plastica censura la bellezza del sorriso, le molteplici espressioni del viso e riduce alla sola intensità dello sguardo le sottigliezze del linguaggio del corpo.
Così l’antica civiltà occidentale ha subito un dramma, censurata sia per la paura di contaminare gli altri e la paura per se stessi, sia per la paura che l’altro possa contagiarci.
Il rispetto umano si rivela ormai solo nella distanza, nella freddezza, nel gesto virtuale, nel gel idroalcolico con il quale bagniamo le mani prima di entrare in un qualsiasi negozio, prima di entrare in Chiesa, di andare a scuola, anche in asilo, facendo pesare sulle esili spalle dei nostri figli e dei nostri nipoti il peso e l’angoscia del sospetto di poter contaminare un adulto.
Immaginiamo per un attimo le gravi conseguenze psicologiche che così imponiamo ai bambini proprio nel momento in cui si aprono alla vita, alle relazioni con il prossimo, alla conoscenza, alla gioia, a tutte le potenzialità del loro sviluppo formativo. Tra l’altro, questa nuova civiltà sembra avere un gusto troppo pronunciato della morte: parliamone.
La solitudine, la distanza fisica dal prossimo sarebbe quindi la più grande prova del rispetto dell’altro. Il modo in cui, da un anno a questa parte sono stati trattati gli anziani e i malati però ne è la più evidente e drammatica smentita: isolati, rinchiusi, confinati secondo regole sanitarie molto rigide, gli anziani hanno sofferto violentemente e questa nuova civiltà del covid se ne è portati via a migliaia, nel silenzio più totale.
Qualche spirito illuminato ci spiega che oggi si sta imponendo una nuova civiltà che sprona per un ritorno a modi di vita più sobri, alle effusioni represse e catartiche di una civiltà post-moderna che ha dimenticato l’antico valore del pudore, che considera la decenza come un termine cattivo, un modo di vivere che servirà a valorizzare l’arte della conversazione, a dare spazio alla galanteria, alla cortesia, alla valenza intellettuale dei rapporti umani.
Una riflessione troppo ottimista, se ricordiamo che oggi, andare al ristorante è diventata un atto di trasgressione inaudita e gli scambi intellettuali, nell’epoca di Netflix e Google, Amazon, Facebook, Apple eccetera, interessano soltanto una piccola minoranza.
Questi spiriti gloriosi evocano come un nuovo segno di civiltà persino il ricorso ad abitudini e stili di vita che non hanno nulla di occidentale, mutuate da culture non nostre, come il “namaste” indiano, ad esempio, segno di pace e rispetto attuato con gli occhi non più abbassati come impongono queste società tradizionali ma ora tenuti ben alti, per tradurre visivamente quello che non possiamo manifestare in maniera più evidente.
A questi spiriti faremo semplicemente notare che a Roma si fa come fanno i romani, che cioè, la resistenza a questa nuova civiltà “covidusiana”, compreso il linguaggio derivante, riveste ormai un ruolo importante perché, alla fine, concerne la difesa della nostra identità e delle nostre stesse radici.
Eugenio Preta