La realtà e la percezione nell’isolamento contro la pandemia
Siamo finalmente usciti dalla camera iperbarica dell’isolamento e a fatica la vita sta ricominciando a battere i ritmi che aveva perduto per più di 90 giorni, tra grandi speranze e tanti dubbi. Medici e biologi di grande fama, continuano a popolare gli schermi e le colonne dei giornali, ad interrogarsi su questa pandemia, ma sono solo in pochi ad aver l’umiltà di confessare la propria ignoranza.
L’intera umanità è rimasta isolata come in un’immensa palla di vetro, immobile e silenziosa pur necessitando di svolgere le incombenze quotidiane, continuare i rifornimenti vitali, garantire i servizi essenziali primi tra tutti quelli medici e sanitari. Più della metà degli esseri umani ha accettato l’improvvisa paralisi della loro vita sociale, delle loro abitudini personali, persino la Chiesa che sapevamo essere sempre in prima linea nel soccorso evangelico delle nostre coscienze rattristite.
Dopo il confinamento treni ed aerei ricominciano ad affollarsi come prima, le leggi dell’economia riprendono il loro corso, riuscendo spesso a sacrificare persino le necessarie distanze interpersonali. Adesso gli abitanti delle isole e dei litorali potranno ritornare a frequentare le spiagge dove, in verità, non era stata riscontrata alcuna traccia di questo virus maledetto e di fronte all’ecatombe di parenti ed amici che abbiamo tutti vissuto, qualcuno ricomincerà a riconsiderare quel rifiuto della morte collettiva che la società contemporanea ha voluto immaginare e le conseguenze di questa rimozione collettiva, probabilmente più drammatica dello stesso rischio sanitario che stiamo correndo.
In questo isolamento generalizzato l’esistere ha perso ogni dimensione materiale e si è ridotto solo all’idea di esistere. “Esse est percipi”, esistere significa essere percepito dicevano gli empiristi inglesi, specificando che la realtà esiste solo nella mente di chi la percepisce, la conoscenza si attua solo nella forma che la mente riesce a percepire.
“Esse est percipi”: siamo rimasti confinati tra quattro mura e le televisioni ed il nostro ordinatore ci hanno inviato messaggi e informazioni sull’epidemia che hanno costituito la nostra idea della realtà. Spento lo schermo però, l’epidemia con tutta la sua prosa svaniva come per incanto e restavano soltanto i rumori ricorrenti della casa.
“Aut percipere”. Secondo il paradigma della globalizzazione felice che abbiamo costruito ed alimentato, figli, parenti ed amici sono sparsi per tutto il continente, distanti tanto che ancora non siamo riusciti a capire se effettivamente si ricordino di noi.
Il virus e le sue conseguenze hanno determinato l’interruzione improvvisa della presenza, arrivando persino al punto di minacciare la nostra stessa presenza nella mente dei nostri intimi. Abbiamo cercato di industriarci in mille attività, abbiamo cercato di scrivere articoli, poesie, abbiamo commentato su Facebook, siamo intervenuti virtualmente nei dibattiti e pur se questa nostra frenesia di esistere usciva direttamente dalla carne viva, in verità si trattava soltanto di parole, immateriali, invitate ad inserirsi e diluirsi nel contesto del dibattito. Parole che, appena uscite dalla mente, appartenevano già al passato e non davano più alcuna prova della nostra esistenza.
E se guanti in lattice, distanze interpersonali e mascherine sanitarie, tutte precauzioni che siamo stati invitati a rispettare, possono oggi garantirci il necessario bisogno di ossigeno non contaminato, ci hanno privato, comunque, di quell’altra linfa immateriale della quale abbiamo bisogno per vivere.
Esse est percipi aut percipere: non siamo forse arrivati al punto di spegnerci, come la fiamma di una lampada che ha smaltito quasi tutta la sua riserva di olio?
Eugenio Preta