Il direttorio franco-tedesco per il salvataggio dell’economia europea
In Europa, la settimana trascorsa è stata caratterizzata dalle proposte del piano di rilancio dell’economia, annunziate da quel direttorio europeo ormai consolidato composto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron.
Un piano iniziale valutato oltre 1000 miliardi di euro, poi sceso a 500 miliardi per la feroce opposizione dei Paesi del nord, poco propensi ad accollarsi solidalmente le difficoltà degli altri. Un piano che si presenta in un formato inedito: non si tratterebbe infatti del MES, meccanismo europeo di stabilità, nè dei famosi eurobond e men che meno del quantitative easing della Banca centrale, contestato recentemente dalla Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe.
La formula scelta consisterebbe in un prestito globale stipulato dalla stessa Unione Europea e destinato ad essere spalmato sull’insieme degli Stati membri, livellato secondo le difficoltà da questi incontrate e che sarà rimborsato dall’insieme dei Paesi dell’Unione. Si tratterebbe quindi di un mutuo che molto probabilmente verrà restituito con una tassa europea supplementare.
Ma quando saranno disponibili questi soldi? Da quello che si è capito, tra Marzo e Aprile del prossimo anno. Questa, la prima nota assurda di questo dibattito. Alla Francia, alla Spagna, al Portogallo, all’Italia e alla Grecia i soldi servono, se non subito, di certo entro Settembre-Ottobre, perché le emergenze economiche vanno affrontate nell’immediato. Ma a Bruxelles fanno finta di niente.
La conferenza di presentazione della scorsa settimana, è apparsa molto confusa, sicuramente per la difficoltà dei dirigenti europei di riuscire a convincere i Paesi che rifiutano i principi di solidarietà comunitaria e di mutualizzazione del debito, compresa la Germania che ha tutto l’interesse di tenere in vita il sistema del mercato unico dove copre il 59% degli scambi commerciali interni e dove vanta crediti commerciali di oltre 935 miliardi di euro sui Paesi del sud, senza vederne possibilità di rimborso, vista la loro attuale incapacità finanziaria. Del resto i 500 miliardi accettati dalla Merkel non sono in realtà che la contropartita all’accordo su un bilancio generale UE raddoppiato per i prossimi tre anni.
L’Europa dimostra così, sempre più chiaramente i suoi egoismi e, di fronte alle crisi più gravi che attraversano il continente, torna in rilievo solo e soltanto l’interesse nazionale, come del resto chiaramente dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe che ha bocciato senza tentennamenti il tentativo della Bce del “quantitative easing”.
Oggi questa Europa si trova con le spalle al muro: non può più permettersi di tergiversare sul rilancio economico, ormai impellente e, discreditata dalla forte inerzia dimostrata di fronte alla pandemia, Bruxelles si troverebbe in grande difficoltà se non riuscisse a trovare il metodo giusto per risollevare un’Unione europea agonizzante.
In questi mesi di epidemia il divario tra il nord ed il sud dell’Europa si è ulteriormente aggravato e sono stati i Paesi più deboli economicamente a patire maggiormente l’attacco del virus. Di fronte a un cataclisma di questa portata l’Europa si sarebbe dovuta mostrare unita, invece, ad onta del pomposo e falso nome che si è data, è tutto fuorché unita.
Basti pensare alla bagarre sulla cifra da approntare per il Recovery Fund, passato da oltre mille miliardi di euro iniziali a 500, un Fondo che dovrebbe essere gratuito, ovvero a fondo perduto, senza l’onere della restituzione.
Ma l’Austria, l’Olanda e gli altri Paesi dell’Europa del Nord non ne vogliono sapere di contributi a fondo perduto. A loro avviso, il Recovery Fund dovrà essere una linea di credito con l’aggiunta di alcune condizioni: i Paesi che accederanno a tale credito dovranno adottare le ‘riforme’: riduzione del numero di dipendenti pubblici, riduzione delle pensioni, tagli alla spesa sociale, tagli alla sanità e via continuando. In pratica, per appena 500 miliardi di euro, i cinque Paesi europei che usufruiranno di questi crediti, dovranno sottomettersi a regole che sono simili, se non uguali, a quelle del MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, oggi rifiutato da Francia, Spagna, Portogallo, Italia e Grecia.
A questo punto sorge anche il problema della tenuta dell’euro stesso di fronte al divario sempre crescente del sistema monetario ed il problema di mantenere in una stessa moneta unica economie che non hanno più niente in comune.
Senza un ripensamento radicale della natura stessa della costruzione europea fin qui perseguita, non saranno certamente i 500 miliardi annunciati ieri che riusciranno a salvare Bruxelles dal fallimento definitivo.
Eugenio Preta