La crisi epidemica ha rivoluzionato la concezione stessa del lavoro
Sin da bambini abbiamo cominciato a capire come non ci fosse alcun nesso estrinseco tra il valore di un lavoro e il tempo che si impiega per produrlo. Ci siamo resi conto, ad esempio, che a scuola, al momento del compito in classe, spesso, chi consegnava per ultimo il suo elaborato non otteneva il voto migliore.
Il nostro attuale diritto del lavoro, un diritto ancora largamente giurisprudenziale, si è costruito sull’equivalenza del tempo che il salariato mette a disposizione del datore di lavoro e che serve poi per quantificare il dovuto compenso. Lo stipendio, la durata del lavoro, gli straordinari, le ferie annuali, la cassa malattia, i contratti a tempo determinato, la cassa integrazione e la pensione vengono calcolati sulla silloge del tempo trascorso nell’ufficio o nella fabbrica. Più tempo dedicherò al mio impiego, maggiori saranno le eventuali indennità a cui avrò diritto in caso di licenziamento. Non è il prodotto del mio lavoro che viene preso in considerazione, ma soltanto il tempo che ho impiegato per compierlo. Per il legislatore quindi, la pertinenza, la precisione, l’efficacia del gesto non costituiscono un criterio di valutazione. Soltanto il tempo attribuisce un valore oggettivo ed universale al lavoro compiuto, esso infatti non discrimina, è uguale per tutti, non ha confini ed è un sistema che permette, per esempio, il confronto tra un operaio cinese ed il suo omologo europeo. Ed è sempre il tempo a stabilire il valore di un lavoro attraverso il prezzo orario con il quale viene retribuito l’impiegato, con tutti i limiti che ciò può comportare quando con questo stesso principio, si devono remunerare professioni che comportano funzioni necessarie ma dure da compiere.
In questo periodo, il ricorso sempre più frequente – a causa del Covid 19 – al telelavoro ha assunto le dimensioni di una vera pandemia che minaccia, come il virus che l’ha generato, tutte le convinzioni consolidate dalla definizione tradizionale del tempo di lavoro. Se si tiene conto che milioni di cittadini stanno lavorando oggi da casa, sorge il problema di controllare il rispetto dell’orario di lavoro, la durata della giornata lavorativa, il conto delle ore supplementari e persino il costo di un’eventuale cassa-integrazione. Il datore di lavoro, ormai, può valutare esattamente il risultato ottenuto dagli impiegati che, del resto, col telelavoro avranno fornito senza più artifizi, l’esatto valore delle loro competenze. Si attua così quel passaggio che dovrebbe premiare la qualità del singolo rispetto alla presunta capacità del gruppo.
Questo smart working, smascherando chi finge di avere molto da fare e chi lascia per ultimo il posto di lavoro, è servito anche a cancellare i tesserini da vidimare,i buoni pasto, i rimborsi chilometrici, le spese di trasporto e in particolare i ricatti permanenti del rappresentante sindacale che esisteva solo grazie alla concentrazione del gruppo in uno stesso reparto. La separazione temporale del telelavoro si accompagna ad una separazione spaziale. L’impresa, gìa dematerializzata (pensiamo alle start-up) e la stessa concentrazione del lavoro in un unico sito, retaggio della rivoluzione industriale del XIX secolo, oggi, nell’epoca delle reti numeriche e in una Unione Europea che ha sacrificato le sue industrie sull’altare della mondializzazione, si ritrovano in profonda crisi. Resta che il lavorare da casa, influirà ormai sul nostro quotidiano e sulle nostre stesse abitudini sociali e non si potrà applicare a tutte le attività economiche, tanti sono i settori che prescindono: il commercio al dettaglio, il turismo, i servizi alla persona richiederanno sempre di più la prossimità e l’empatia.
In questi tempi del coronavirus sono in tanti a reclamare il telelavoro per praticità o perché preoccupati dal corto termine, sicuramente per rilanciare l’economia e per evitare, ad esempio, l’embolia dei trasporti pubblici. Ma non contemplano però l’esatta portata delle conseguenze. Come il cavallo di Troia lo smart working comporta implicitamente una rivoluzione profonda delle relazioni di lavoro insieme ad una nuova concezione proprio del lavoro il cui valore, suprema virtù, potrebbe oggi essere sottoposto a differenti criteri di valutazione.
Eugenio Preta