Il virus non è cinese ma decisamente globalista
La Cina appare come vincitrice della lotta al coronavirus, nonostante abbia effettivamente nascosto l’epidemia quando era contenuta entro il suo territorio, almeno fino al 20 gennaio. La propaganda cinese, infatti, è sempre martellante ed a Bruxelles avrebbero deciso di assecondarla, per quieto vivere.
Un rapporto dei ricercatori dell‘European External Action Service (Eeas), ha denunziato lo “sforzo sistematico di disinformazione da parte della Repubblica Popolare, per deviare le critiche sullo scoppio della pandemia e promuovere il suo prestigio internazionale”, ma la censura Europea ha preferito imbavagliarsi da sola.
Se il covid 19 non è un virus cinese, provocatoriamente si può definire un virus globalista perché proprio in quel regime cinese, fondato sulla paura e sul sospetto, le autorità locali hanno preferito negare la realtà per settimane, invece di lanciare l’allarme per una crisi sanitaria praticamente in corso. Dal punto di vista fattuale questa affermazione non può ritenersi sbagliata. Resta da chiedersi se la ragione per cui le autorità cinesi abbiano mentito consista effettivamente nei principi della loro ideologia politica che preferisce ricorrere,se non a vere menzogne, spesso a mezze verità.
Fedeli allo spirito delle leggi di Montesquieu, secondo cui “ovunque vi sono costumi miti, v’è commercio e che ovunque v’è commercio, vi sono costumi”, gli occidentali hanno creduto che la mondializzazione economica avrebbe permesso al regime cinese di liberalizzarsi e democratizzarsi. Tipico esempio di cecità, consustanziale al sistema marxista-leninista, da parte degli intellettuali liberali di fronte alla realtà. Più semplicemente, per il regime comunista cinese, riconoscere un incidente di percorso, anche dalle conseguenza disastrose, sarebbe equivalso a screditare la bontà del regime, cosa che ha dimostrato di aborrire per due volte nel corso dell’epidemia. Ricordiamo che pur se i regimi possono mutare nel corso delle varie epoche, i loro fondamenti politici, storici e psicologici restano sempre uguali.
Il turco Erdogan si atteggia infatti a nuovo sultano, il russo Putin a novello zar, come faceva una volta il compagno Josip Stalin, ed i loro corrispettivi americani si vedono ancora a Saratoga, eredi dei Padri fondatori.
Quanto al presidente cinese Jinping, lui si vede bene un discendente Ming – la stirpe degli imperatori che hanno riunificato l’impero del mezzo – certamente in maniera tutt’altro che incruenta. Quando affermiamo che la Cina persegue una politica espansionistica aggressiva, caratterizzata dall’occupazione militare dei mari della Cina meridionale, dimentichiamo che questa violenza espansionistica praticamente è la risposta cinese all’occupazione perpetrata dalle potenze anglo-sassoni ed americane di questa parte dell’oceano pacifico che i cinesi ritengono il loro naturale sbocco marittimo. Comunista o nazionalista che sia (o che sia stata), la Cina non è riuscita a dimenticare la guerra dell’oppio scatenata dal potente Impero britannico nè l’incendio del Palazzo d’Estate di Pechino, perpetrato dalle truppe franco-britanniche nel 1860.
Nello stesso tempo, quando i media occidentali riferiscono le persecuzioni inflitte ai tibetani, musulmani o cattolici, facendole filtrare solo attraverso il caleidoscopio dei diritti dell’uomo, non fanno opera di verità obiettiva. Per Pechino infatti il Tibet rimane l’equivalente della nostra Valle D’Aosta e, quanto agli irredenti di Lhasa, i musulmani non disturberebbero le autorità cinesi se non dimostrassero velleità indipendentiste velatamente sostenute dagli USA e finanziate dall’Arabia Saudita. Quanto ai cattolici poi, la Cina preferisce considerarli cinesi provvedendo da sola alla nomina dei vescovi tibetani, piuttosto che farseli dettare da una potenza straniera, in questo caso dal Vaticano.
Per questo la Santa sede ha firmato con Pechino una specie di nuovo concordato per cui i vescovi tibetani vengono proposti da Roma ma nominati dalla Cina. Questa l’attualità che si solidifica poi in Storia. Ma la Storia sarebbe materia troppo complessa per essere lasciata alla cura delle sole ideologie, per di più di quelle che sono promotrici di un partito, di una ideologia o di un mercato a vocazione unica.
Eugenio Preta