Il sillogismo storico tra la caduta di Roma e l’Occidente odierno
Nel 109 dC un’epidemia di peste colpisce l’Impero Romano uccidendo più di un terzo della sua popolazione e indebolendone irrimediabilmente il fattore di natalità di fronte ai barbari. Sembra ripetersi un sillogismo storico tra la caduta dell’Impero romano allora e l’Occidente oggi.
Anche allora, l’Occidente preferiva importare grano dalle altre province africane o galliche, piuttosto che coltivarlo in Italia. Si preferiva ricorrere all’opera degli schiavi determinando la disoccupazione massiccia della plebe romana e italica, fenomeno che si cercava di alleviare con le distribuzione gratuita di pane, grano ed anche con la moltiplicazione dei giochi e degli spettacoli, in modo da distrarre le coscienze e allontanare ogni pericolo di ribellione. Secondo Giovenale oltre 200.000 persone usufruivano dell’assistenza pubblica e venivano allettati da giochi e spettacoli ludici (panem et circenses).
Le invasioni barbariche, non possono essere considerate esclusivamente una vera invasione militare che ha distrutto improvvisamente l’Impero, quanto piuttosto il processo determinato dalle migrazioni dei barbari più poveri che entravano nei confini della Roma imperiale e si stabilivano nelle terre abbandonate. Per bloccare il fenomeno, gli imperatori utilizzavano questi migrati anche come soldati nelle guarnigioni di frontiera, segno anche questo della avvenuta disaffezione dei romani per l’arte militare, una sorta di resa. A poco a poco i barbari entrarono nel tessuto civile imperiale reclamando più terre e maggiori salari.
L’attitudine delle nuove genti è stata sempre ambigua, allora come ora, perché, se da un lato sognavano i confort e le ricchezze, dall’altra volevano, come vogliono adesso, conservare la loro identità, la loro Religione e i loro costumi. I dirigenti imperiali pensavano che, considerati gli agi della loro civiltà, i barbari avrebbero finito per imborghesirsi e assimilarsi completamente. Errore fatale però perché, di fronte alle nuove esigenze lo Stato non fece altro che indebitarsi, emettere nuova moneta in abbondanza e, non potendo più pagare la sua difesa, fallì impietosamente.
Il buon napoletano si rigira nella tomba: i suoi corsi e ricorsi della Storia si rinnovano oggi. In questo inizio del 2020 dove tutto sembra concorrere a far fallire l’Europa, indebolita da tempo, proprio nel momento in cui credeva invece di essere forte.
L’attuale epidemia, ci colpisce violentemente perché siamo il continente più penetrato dalla Cina in termini di popolazione ed attività economiche. Con l’attuale crisi della nostra produzione industriale, siamo minacciati di penuria in settori importanti come quello medico e sanitario, il tessile, la produzione di ricambi, i procedimenti ed il materiale elettronico, perché abbiamo ceduto ai cinesi le nostre industrie, diventando completamente dipendenti da questo Paese, diretto peraltro da un regime comunista totalitario, lontano mille secoli dai nostri valori democratici.
Dal punto di vista dell’immigrazione, da tempo lasciamo entrare tutti, a dispetto dei nostri stessi interessi, anche senza chiedere il corrispettivo del rispetto dei nostri principi. Così una parte dei nuovi arrivati si rivolta perché vorrebbe conservare i suoi valori e la sua religione. Per evitare di risolvere il problema paghiamo un esoso tributo ad uno dei nostri peggiori nemici, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ci ricatta con l’arma delle masse di migranti che non arresta ai confini e progetta pubblicamente di voler islamizzare l’Europa.
Così, dopo 1.700 anni, le stesse cause producono fatalmente le stesse reazioni suicidiarie e probabilmente, alla fine, lo stesso risultato. Siamo pazzi, ingenui o complici della nostra stessa fine? Non ci resta che sperare che questa crisi proteiforme possa illuminarci ed aiutarci a ritrovare urgentemente il nostro spirito, quella stessa forza che era stata dei nostri antenati per vincere e riconquistare la nostra sicurezza, la nostra prosperità e la nostra potenza.
Eugenio Preta