La necessaria severità delle pene
La società contemporanea è giornalmente messa a dura prova, non soltanto di fatti sanguinosi terroristici, ma anche di notizie di cronaca nera che colpiscono le categorie che dovrebbero essere più protette come i neonati, i bambini, le donne, gli anziani. Delitti efferati su vittime che hanno avuto la sola colpa di essersi trovati davanti, senza volerlo, un assassino spietato.
Sono delitti che scatenano la rabbia popolare e che spesso vengono sminuiti da quel relativismo garantista che vuole il primato della legge sulla giustizia e che come conseguenza, trascura la vittima enfatizzando l’assassino, le sue motivazioni psicologiche, il suo stato emotivo.
Siamo spettatori di crimini efferati, puniti, spesso, con pene irrisorie a volte ridotte peraltro dai marchingegni giuridici del patteggiamento, del rito abbreviato, della buona condotta, con la conseguente banalizzazione della colpa. Dal momento che il garantismo ha reso poco applicata in occidente persino la condanna all’ergastolo, la domanda crescente di giustizia mette oggi in discussione, anche nelle società giuridiche più evolute, la necessità di un deterrente valido a scoraggiare il reato più estremo, la richiesta di ripristinare pene più severe tanto da arrivare persino a pensare alla pena capitale, una sanzione divenuta tabù nelle società occidentali che hanno perso i loro valori originari e si apprestano a rivisitare fede, religione e morale.
La trilogia infernale del pensiero unico, del politicamente corretto e del terrorismo intellettuale, colpisce inesorabilmente chiunque si avventuri in questo terreno ostico e inviso al garantismo ormai imperante che regna in Europa e anima gruppi di pressione, chiese, curie e misericordie che influenzano il pensiero mondiale specialmente nel nostro Occidente.
Amnesty international è senza alcun dubbio l’organizzazione più conosciuta che milita a favore dei diritti dell’uomo, diritti che indubbiamente l’individuo deve vedersi tutelare ma che dovrebbero, di contro, obbligarlo ad osservarne i doveri. Ogni anno Amnesty pubblica una lista dei “cattivi”, un rapporto che mette di fronte alle proprie responsabilità i 28 Stati che praticano ancora la barbarie “dell’occhio per occhio”, identifica i 9 Stati che l’hanno limitata, e i 104 Paesi che l’hanno legalmente abolita. Un’apparente maggioranza di 109 stati su 194 che però verrebbe rinversata se si calcolasse la massa di popolazione a cui si riferisce: 7,7miliardi di esseri umani, due terzi dei quali vivono in Paesi che ancora applicano la pena capitale.
Contrariamente al discorso degli abolizionisti, i motivi di questo mantenimento sono diversi e dipendono in gran parte dalle particolarità culturali. L’Europa e parte degli Stati Usa, hanno abolito la pena di morte per allinearsi al cristianesimo, e specialmente alla Chiesa cattolica, e per seppellire quel senso di colpa sentito in maniera generale riferito al periodo nazista, al di là dei veri responsabili dei crimini.
Gli Stati uniti costituiscono tuttavia un ‘eccezione, perché la maggioranza di molti suoi Stati, l’ha mantenuta ed in alcuni casi pure ripristinata, certo non per il senso di colpa conseguente alle vicende della 2° guerra mondiale, ma per le caratteristiche estrinseche di alcune società statali, che vanno dalla brutalità necessaria al mantenimento dell’ordine, all’obbligo di rispettare la volontà popolare come applicazione della democrazia che si vuole diretta.
L’Asia è, a maggioranza, favorevole al mantenimento della pena di morte non soltanto negli Stati non democratici come Cina o Corea del Nord, ma anche in democrazie avanzate come Giappone, india e Singapore. Tutto dipende dal rapporto tra individuo e collettività.
Nell’occidente, il cristianesimo e il liberalismo, hanno creato una filosofia che mette il rispetto della vita e delle scelte personali al di sopra degli interessi della società, in Asia invece prevale il rapporto stretto tra religione e la struttura del gruppo sociale, una visione che dà ragione a Durkheim: il crimine è una ferita inflitta alla coscienza collettiva, che può essere guarita solo con una pena proporzionale. Il crimine più odioso quindi deve ricevere la pena più dura. Così india e Giappone giustificano la pena di morte, mentre a Singapore ed in Indonesia la praticano per colpire la criminalità legata allo spaccio di droga.
Se si prendono in considerazione anche i Paesi islamici di Asia e di Africa – dove la libertà individuale è quasi negata e una semplice affermazione può scatenare il castigo estremo, come avvenuto ad Asia Bibi condannata a morte per blasfemia – si può notare che la pena capitale viene applicata ai reati suggeriti dalla “charia” ed ai reati di matrice religiosa come la trasgressione sessuale. Alcuni di questi Paesi sottolineano la relatività delle situazioni, molti altri conservano nei loro ordinamenti penali la pena capitale senza più applicarla, come nel caso delle antiche colonie francesi o dei vecchi protettorati britannici, molto più influenzati dal pensiero occidentale.
In America latina si registra una situazione paradossale: i Paesi abolizionisti come il Venezuela o il Messico detengono i record mondiali di criminalità. Probabilmente, anche in questi casi, l’abolizione è da imputare all’impronta cattolica, al fatto che gli ultimi Pontefici, molto determinati a condannare la pena di morte, provengono da quel continente. Ricordiamo per onore di verità però che questi stessi rappresentanti della Chiesa si oppongono all’aborto, cioé all’assassinio di innocenti per antonomasia, e basano la loro opposizione alla pena capitale sulla stretta osservanza dei 10 comandamenti. Una posizione perlomeno discutibile: il comandamento “Non uccidere” viene così più semplicemente tradotto da un “non commettere assassinio” nonostante un testo stesso della Bibbia, il Levitico, faccia un elenco delle azioni che meritano la morte.
Per queste ragioni non sembra oggi un non senso interrogarsi sul ristabilimento della pena capitale, pena che avrebbe perlomeno il merito di restaurare una piramide ragionevole di sanzioni. L’impunità di cui gode la criminalità, deriva dal fatto che si ha un certo imbarazzo a punire in maniera proporzionale i crimini più efferati. Non importa sapere se la pena debba essere esemplare o dissuasiva, però sarebbe pericoloso lasciare credere che un delitto possa passare impunito perché oltre al fatto di suscitare proselitismo, coltiverebbe un’ “anomia”, l’indebolimento della fede o della fiducia nei valori e nelle regole della società in seno alla quale si vive.
Lo spettacolo odioso di terroristi che si godono una prigione protetta invocando il loro diritto al silenzio, dopo le morti inflitte o la quasi impunità garantista di cui godono gli assassini di neonati o bambini in tenera età, non può essere accettato né dai cristiani né dagli umanisti.
Di fronte ad una rivolta finora impotente,il garantismo certamente rende incerto l’avvenire delle nostre società, potrebbe considerarsi il dark side, la faccia nascosta del progressismo che così facendo, inietta veleni mortali, distrugge le immunità necessarie e condanna a morte una civiltà e la società umana che la compone.
Eugenio Preta