La crisi del Venezuela, epilogo dell’esperimento socialista sudamericano e il silenzio del Vaticano
La crisi economica, sociale e politica del Venezuela rappresenta in questo momento, per tutta la sinistra sudamericana, un vero incubo che mette irreversibilmente in crisi un certo modello di socialismo sudamericano basato sullo sfruttamento del petrolio e delle sue “commodity” (prodotto indifferenziato) estratto a basso prezzo e rivenduto agli occidentali a prezzi altissimi, non solo in Venezuela.
L’obiettivo era di dare seguito e sviluppo all’Alleanza boliviana per le Americhe. Un progetto di cooperazione politica e commerciale promosso da Venezuela e Cuba nel 2004 e che il ridimensionamento dell’impero americano nei confronti dei paesi mito no-global, con l’elezione di Barack Obama nel 2008, sembrava poter favorire.
La realtà è che l’America Latina, oggi, è ancora più filoamericana di quanto fosse trent’anni fa: nel 1989, tutti i paesi delle Organizzazioni degli Stati Americani, tranne gli Stati Uniti, votarono contro l’invasione di Panama (che aveva molti tratti in comune con il tentativo di capovolgere il governo Maduro in Venezuela), ed ora, a riconoscere Guaidó, che si è autoproclamato presidente del Venezuela ci hanno pensato già la Colombia, il Brasile, l’Argentina, il Peru, il Paraguay, il Guatemala, la Costa Rica, l’Honduras e Panama. Questo significa l’epilogo dell’esperimento socialista.
Mentre Il Venezuela, un Paese di 31 milioni di abitanti più del 95% dei quali di religione cattolica, si trova oggi, con migliaia di persone in piazza da giorni per chiedere le dimissioni del governo, ad un passo dalla guerra civile, si attende una presa di posizione del Vaticano che certo non può risolversi nella solita dichiarazione da protocollo o peggio ricordando che attualmente Bergoglio è impegnato a Panama per le giornate mondiali della gioventù. La posizione Bergoglio sulla situazione venezuelana, un continente da cui è originario, è attesa con attenzione particolare perché, purtroppo, in passato ha dato adito a parecchie ambiguità. E se è vero che l’arcivescovo Celli, specialista dell’America latina e il Generale dei gesuiti, il venezuelano Sosa, sotto l’egida del Vaticano hanno organizzato vari tentativi di mediazione tra Maduro e l’opposizione, è anche vero che dall’inizio della crisi politica sociale ed economica venezuelana, il Vaticano ha dimostrato eccessiva prudenza riguardo alle manovre dilatorie del potere ed anche una certa reticenza a condannare in maniera netta gli eccessi della repressione contro le opposizioni e persino nei confronti della Chiesa venezuelana.
Oggi a Caracas tutti ricordano le dichiarazioni di Bergoglio, di ritorno dal Cairo quando, a proposito della crisi del Venezuela, comunicò il fallimento della mediazione della Santa Sede a causa del rifiuto di una parte dell’opposizione e manifestò una certa perplessità rispetto alle divisioni interne in seno a questa opposizione.
Un discorso che suonava abbastanza sorprendente, perché pronunciato da colui che si era detto paladino dei deboli della terra, colui che, con una operazione altamente mediatica, era rientrato da Lesbo nell’aprile del 2016 portando con sé tre famiglie siriane di religione musulmana e da Panama ha chiesto agli Stati di soccorrere i migranti e di accoglierli, dimenticando però gli oltre 2milioni e mezzo di venezuelani che hanno abbandonato la loro patria fin dal 2015.
Adesso il mondo cattolico, sempre più confuso, aspetta con ansia la parola di Papa Francesco che possa sanzionare quei dirigenti politici che – secondo una formula cara allo scrittore José Martí, eroe nazionale dell’indipendenza cubana – “non servono la grandezza del loro Paese”.
Eugenio Preta