Solo una partita di football
La vicenda della finale di Supercoppa italiana che vedrà Juventus e Milan sul prato del King Abdullah International Stadium di Gedda, è un nuovo capitolo della storia della triste decadenza del nostro – una volta – amato football.
Interessi economici compositi, connivenze teppistiche tra dirigenze e gruppi organizzati di ultras – che seguono, a spese dei club, le trasferte più lontane, proibitive per un probo padre di famiglia – dimostrano che il calcio, con i suoi rilievi socio-economici, non è più un atto di quella commedia che mette di fronte, nello spazio di 90’, 22 giocatori in mutande per far trepidare tutti i loro fans, ma soltanto un evento consumistico, con risvolti televisivi, economici ed etici di grande importanza.
Mesi fa la Lega Calcio, uscita sicuramente non molto rasserenata dalle vicende dell’elezione del suo presidente, scelse la città saudita di Gedda per lo svolgimento della finale della supercoppa italiana di calcio, il terzo trofeo nazionale dopo scudetto e Coppa Italia. Un’operazione del valore di 22,5 milioni di euro che ci avrebbe impegnato in Arabia Saudita per giocare non la sola partita del 2019, ma tre future finali, con buona pace dei diritti umani violati, delle donne arabe e delle bandiere della solidarietà tra i popoli sventolate in ogni dove.
Stupisce che Gaetano Miccichè, novello presidente della FIGC, abbia così dato il suo assenso alla disputa della finale di Supercoppa tra Juve e Milan a Gedda, in Arabia Saudita, implicitamente ridicolizzando le organizzazioni internazionali che continuano a denunciare la situazione di discriminazione che vivono le donne di quel Paese.
Stiano sereni il rampollo Agnelli e il furbo Elliot, si giocherà eccome se si giocherà a Gedda. Noi paladini dei diritti dell’uomo, buonisti per eccellenza, tuttavia acconsentiamo di andare a giocare, come burattini senza anima, una partita dal valore (sic) esclusivamente nazionale, addirittura nel regno della discriminazione razzista e sessista.
“Pecunia non olet” (Il denaro non ha odore), avrebbero detto i latini e sicuramente, in epoca di vacche magre, trovare allocchi capaci di riempire le asfittiche casse del settore è stata un manna. Certamente sarebbe stato più opportuno, invece di sognare terreni erbosi artificiali e lontani, meditare seriamente sulla situazione di un settore che appare in crisi profonda, dopo la sventurata era di Ventura che ci permise di venire esclusi dai mondiali di Mosca e ci lasciò partecipare solo al livello di “fischietti”, triste ed amara metafora del nostro comparto calcistico.
Il nostro calcio, purtroppo, non è stato capace di rinnovarsi, anzi ha inscenato una strana tragicommedia in federazione nazionale e in Lega calcio con il balletto di commissari, presidenti screditati e cordate riparatrici che avrebbero dovuto essere sportive e invece erano soltanto politiche. Ha ripiegato poi su Mancini – commissario tecnico perché il solo disponibile – un altro prodotto senza qualità, che ha collezionato una serie di “malefigure”, risollevate poi da qualche dribbling riuscito nell’ultima partita della Nazionale che ci ha consentito almeno di evitare l’ennesima sconfitta, e i tifosi hanno così dimenticato i peccati del passato, si sono imbevuti di nuovi idoli nonostante la pesante eliminazione anche da quel giro di Coppa europea inventata per arrotondare i mensili delle federazioni.
Però restiamo sereni ed andiamo a Gedda, anche perché Il Presidente della Lega Serie A, Gaetano Micciché, precisa che non è vero che le donne arabe non possono entrare nello stadio, anche se è stato concesso loro di guidare un’automobile solo dallo scorso anno, non possono frequentare le facoltà universitarie – ad esempio la facoltà di ingegneria è assolutamente vietata – le atlete che partecipano ai giochi olimpici sono solo quelle che risiedono all’estero, certamente non in “s.arabia”, e allo stadio, quelle gentili signore possono anche andarci, ma devono sedersi in speciali gabbie dislocate in tribune studiate, come per gli animali di un circo, lontane dai maschi.
Ma che dicono le nostre scarpette rosse, le magliette rosse e tutte le rosse che sfilano e manifestano per le violenze sulle donne? Forse nella terra del petrodollaro non esistono le discriminazioni? Scommettiamo che i calciatori, dipinti di rosso in Italia nella giornata della violenza contro le donne (che risate però… fra questi, anche quelli accusati di aggressioni sessuali ma poi accuse ritenute inventate), saranno capaci di giocare quella partita e poi concedere interviste, specialmente agli specialisti di Sky come se fossero a San Siro?
Ma non è vero che “pecunia non olet”. Puzza, eccome. Come la rogna di questo mondo del football: un mondo ormai al tracollo, costretto a magie di bilancio, a giochini sempre più ridicoli, come ad esempio assoldare all’oncia brocchi argentini slavi e polacchi solo per attirare i tifosi, col risultato di non concedere spazio ai ragazzi dei nostri vivai.
Credevamo nello sport come messaggio di solidarietà e di pace, ma ci giochiamo la finale a Gedda, parente prossima di Dubai, rappresentazione del consumismo e dell’ affarismo contemporaneo, un luogo dove si deve andare ad ogni costo per ammirare il deserto recuperato al dollaro, come una volta si portavano i figli a visitare gli Uffizi o la Cappella Sistina.
Resta l’amara constatazione della vittoria dell’inutile, del vago. Invece di approfittare dell’occasione sportiva per superare i reticolati e recarci – palloni e bagagli compresi – in una zona di confine umano, una località disastrata da guerre, da rivolte con gente costretta a fuggire, “viriamo” su Gedda, perdiamo la faccia e ci copriamo di ridicolo e di cinismo.
Eugenio Preta