Settimana europea ”terribilis”: tre schiaffi alla democrazia
Di fronte alle vicende quotidiane fa riflettere la definizione di democrazia che dava il padre della primavera di Praga, il riformista Alexander Dubček, forse non immaginando minimamente l’affermarsi di un Europa disattenta e in difetto di democrazia: “La democrazia non è solamente il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere”.
E In questa settimana è sembrato proprio che le istanze comunitarie non abbiano voluto prendere in considerazione i segnali di allarme democratico provenienti dall’attualità e anzi, in osservanza del detto “nessuna democrazia per i nemici della democrazia”, abbia dato risposte “atone” alle contestazioni. Almeno tre, che attestano l’attuale attitudine dell’Unione europea nei confronti della democrazia. Tre schiaffi, alla fine, contro un voto popolare, contro le ragioni di un governo e contro una legge votata dal parlamento di un Paese membro, la Polonia.
Nonostante il voto favorevole del referendum da parte del 52% dei Britannici, nessun segnale di rispetto democratico riguardo agli infiniti negoziati sul Brexit, benché Theresa May stia rischiando il posto per via delle numerose concessioni lasciate ai negoziatori di Bruxelles che, invece di cercare un accordo che possa essere utile a tutti, sono rimasti inflessibili. Anzi, lo stesso negoziatore della Commissione, l’ex ministro francese Barnier, in diretto rapporto con Parigi e con Berlino, ha voluto subdolamente porre sul tavolo dei negoziati il tema caldo della frontiera con l’Irlanda del Nord, proprio per costringere i Britannici a rimanere almeno nell’unione doganale europea: una sconfitta disastrosa per May e per tutti i britannici perché, usciti ufficialmente dall’Unione, dovrebbero sottostare a regole europee decise senza più la loro presenza negoziale.
Uno schiaffo, quindi, ai partigiani del Brexit, che si sentono raggirati, e un’attitudine che può portare a due conseguenze: un secondo referendum per annullare il primo, con buona pace della volontà già espressa dai cittadini; oppure, molto più probabile, a sostituzione del Primo ministro britannico con un altro negoziatore più pugnace, un vero fautore del Brexit e, di conseguenza, l’uscita del Regno Unito senza alcun accordo.
Il secondo schiaffo è rappresentato dalla bocciatura da parte della Commissione del progetto di bilancio presentato dal governo italiano. Una vera contraddizione se a pronunciarla è proprio quel Moscovici, oggi commissario UE, che aveva presentato, da ministro delle finanze di Hollande, un progetto che sforava addirittura il 4% del PIL francese.
La Commissione a questo punto, in virtù dell’accordo di bilancio del 2013, può oggi permettersi addirittura di bocciare il bilancio di uno stato nazionale rimandandolo minacciosamente al mittente per apportarvi le richieste correzioni.
C’è da dire che i precedenti governi italiani avevano sempre obbedito ai diktat dell’UE e, dimostrando ben poca dignità e poco patriottismo, avevano accettato per il 2019, di ridurre il dèficit dello 0,8% del Prodotto interno nazionale.
Anche se oggi gli italiani hanno scelto una nuova maggioranza di governo, gradita da oltre il 60% degli italiani, resta sempre la Commissione ad avere l’ultima parola e verosimilmente a decidere di bocciare il deficit del 2,4% proposto dall’Italia e, a dimostrazione di una reale disparità di trattamento, riesce ad accettare quello della Francia che presenta un deficit in aumento al 2,8%.
Se l’Italia non si piegasse ai diktat di Bruxelles, la decisione spetterebbe al Consiglio dell’Unione europea che, a questo punto, voterebbe a maggioranza qualificata, praticamente un sistema di voto che costringerà l’Italia ad accettare le condizioni imposte da Bruxelles, come già avvenuto per la Grecia.
Resta il problema delle conseguenze politiche dell’atto del Consiglio e della Commissione perché la bocciatura e le eventuali sanzioni economiche dovranno essere sottoposte agli elettori italiani e soprattutto ad un sistema economico nazionale che – fatto salvo il debito, presenta un attivo di bilancio – e che difficilmente accetteranno decisioni che giudicano antidemocratiche, e in definitiva di subire la sorte della Grecia, paese economicamente più modesto, affossato dalla serie infinita dei piani di salvataggio dell’Unione.
Terzo vulnus di democrazia operato dall’UE è quello registrato lo scorso 19 ottobre quando una magistrata spagnola, attualmente vicepresidente della Corte di giustizia dell’Unione europea, in seguito ad un ricorso contro la Polonia presentato dalla Commissione, decideva, come unico firmatario, di inviare al governo polacco l’ingiunzione di sospendere l’applicazione della riforma, votata dalla Sejma, sui limiti di età cui dovrebbero sottostare i giudici della Corte suprema polacca – una specie di Corte di Cassazione – e chiedeva di reintegrare i giudici già messi in pensione. Tutto questo senza una sentenza definitiva della Corte e in assoluta violazione del dettato dei Trattati che stabilisce che l’organizzazione delle istituzioni giudiziarie rimanga competenza degli stati sovrani e non dell’Unione europea.
Quale democraticità dimostrerebbe un‘istituzione europea se ad un giudice della Corte fosse concesso impunemente di sospendere l’applicazione di una legge nazionale? Sarebbe semplicemente una prevaricazione gravissima che segnerebbe a fine dello stato di diritto permettendo ad un giudice di travalicare competenze riconosciute dai trattati, arrivando persino ad annullare un provvedimento votato dal Parlamento europeo.
Mala tempora currunt. In questo anno avremo già visto di tutto, a conferma dello spirito democratico che regna nelle istituzioni: la prova comprovata che questa Unione europea è diventata un governo di burocrati, ma anche di giudici impegnati a ridimensionare le sovranità statali e a ridurre la democrazia parlamentare delle nazioni.
Eugenio Preta