Il rifiuto della vecchiaia
La lettera di una signora, pubblicata dai maggiori quotidiani della capitale dell’Esagono, rimette in discussione il dibattito sulla “morte dolce”. La donna attraverso la stampa informa di aver deciso di porre fine artificialmente alla propria esistenza nel 2020.
Golosa di sigle e di segnali sincopati, la società contemporanea – seguendo i propositi di questa militante pro-eutanasia – ha ritenuto opportuno inventarsi l’ennesimo acronimo: “IVV”,ovvero “interruzione volontaria della vecchiaia”.
Tutto prende spunto dalle intenzioni di questa signora che, c’è da specificare, non è ancora vecchia e gode di ottima salute, ma proprio questo dimostra l’agghiacciante grado di cinismo raggiunto in questa nostra epoca: voler fissare la data della propria morte soltanto perché si teme la perdita di autonomia, si rifiuta la noia, la compassione, la fine dei desideri, il timore di rimanere confinati in una stanza spesso alimentati artificialmente, è in definitiva la voglia di sfuggire alla vecchiaia e a tutti i guai inerenti, così come diceva Mimnermo “…è una forma di rifiuto di se stessi e della normale evoluzione dell’essere umano”.
E’ importante però, distinguere tra l’obiettiva necessità di dover mettere fine alla sofferenza con quell’eutanasia che sentiamo di dover sottoscrivere quando le funzioni vitali – a causa di gravi patologie – stanno per venir meno, e il vezzo che invece emerge prepotentemente in un società votata sempre più all’edonismo e alla filosofia dell’apparire.
Sin dalla sua concezione l’uomo invecchia, ed è inconfutabile che mai sia stato con la nascita, così vicino alla morte. Certo si può vivere male il proprio invecchiamento, rimpiangere di non avere più lo spirito o l’avvenenza di una volta, ma rifiutare la vecchiaia è come rifiutare la stessa nozione del tempo che passa inesorabile.
A cosa si ridurrebbe quindi la vita, questo mistero indecifrabile, se venisse inquadrata solo attraverso il prisma di un gretto materialismo, di una effimera estetica o di una esigenza sessuale? Credere che la vita di una persona debba dipendere solo ed essenzialmente dall’aspetto fisico significherebbe ridurre l’essere umano solo ad un ammasso di cellule sprovviste di una qualsivoglia dignità intrinseca. Del resto questo è l’argomento principe delle teorie pro -eutanasia: la dignità è trascendente la persona umana e dipende solo dalla considerazione che determina in se stessi e soprattutto negli altri.
Questo modo di ragionare però, minaccia la nostra società; il rispetto della persona umana, quale sia il suo aspetto, costituisce il fondamento della nostra civiltà e ne stabilisce innanzitutto l’intangibilità della vita, quella prescrizione che proviene molto semplicemente dalla paura reverenziale dell’uomo di fronte al mistero della morte.
In nome delle considerazioni pseudo umanitarie (mettere fine alla sofferenza) oggi non esitiamo a proclamare che la dignità dell’uomo, il rispetto della vita, non sono che nozioni relative, direttamente, strettamente legate e dipendenti dall’idea che si ha di se stessi o degli altri. Ma a questo punto non esisterebbe più alcuna barriera di ordine morale. La considerazione infatti che ho di me stesso mi permetterebbe innanzitutto di non considerarmi più un essere umano, quindi il conseguente apprezzamento che porto sugli altri mi consentirebbe ogni diritto di critica e di esclusione.
Certo il dibattito rimane avvincente, un bel discorrere, che però, paradossalmente, dimostra come la nostra società non abbia mai avuto tanta paura della morte. E quindi, per esorcizzare questa paura ci si rifugia nell’illusione della bella morte e della volontà di dover decidere autonomamente la data di questa morte, come se morire per scelta personale o ad opera di una semplice iniezione sedativa possa servire a cambiare in qualche modo quello che succederà dopo.
Eugenio Preta