La Brexit di Teresa May, l’ultima chance del sistema per sopravvivere
Dopo il terremoto “Brexit” del giugno 2016, quando il 52% dei britannici scelse liberamente con un referendum di lasciare l’Unione europea, la signora May si impegnò nelle operazioni più opportune per concludere, sempre a favore della Gran Bretagna, le procedure previste per abbandonare l’Unione. Le intenzioni saranno state sicuramente meritorie, ma la realtà si è rivelata molto più ostile per il primo ministro britannico, già nel corso delle trattative con gli europei, oggi con le dimissioni di due pesi massimi del suo governo: David Davis, ministro creato ad hoc proprio per la Brexit e soprattutto Boris Johnson, ex sindaco di Londra e fino ad oggi Ministro degli affari esteri.
In realtà sembra che gli inglesi abbiano trovato un osso nel loro tradizionale “pudding” e tutto sembra essere precipitato. Le dimissioni dei due autorevoli componenti del governo stanno mettendo in risalto le ambiguità della May che proprio durante la campagna Brexit aveva fatto sapere di esserne tendenzialmente contraria e peggio, aveva dichiarato di non essere neanche disponibile ad impegnarsi, come invece avrebbe dovuto essere nella campagna dei “leave” e questo nonostante restasse in procinto di riprendere la testa del partito conservatore, posto ideale per accompagnare le procedure di uscita, ma nelle sue intenzioni svuotandole di ogni valore. Un modo come un altro per continuare a governare a suo piacere, facendo soltanto finta di obbedire al volere del popolo sovrano.
Infatti, la sua decisione di creare una zona di libero scambio con l’UE per i beni e i prodotti alimentari, viene percepita solo come un modo di rimanere effettivamente in Europa: una specie di Brexit dolce, in contrapposizione alla Brexit dura prefigurata da Johnson e Davis.
Inutilmente la May aveva cercato di far passare inosservata la manovra, ma si è sbagliata al punto di aver rimesso in corsa il capo di fila dei laburisti, il decotto Jeremy Corbyn che ne ha approfittato per fare il pieno mediatico, commentando le difficoltà della May, secondo lui incapace già di mettere d’accordo i suoi ministri, quindi poco credibile nel suo impegno di imporre le esigenze britanniche presso le autorità UE.
L’appunto del laburista è ancora più velenoso dal momento che Corbyn non è un laburista alla Tony Blair, ma incarna la sinistra tradizionale inglese, operaia, ostile al mondo dorato della city, pro-palestinese e antinucleare, favorevole alla fine a mantenere la Gran Bretagna nell’Unione europea, ma proprio per scardinare subdolamente dall’interno l’intero sistema. Un populista di sinistra per contrapporsi a Johnson, populista di destra. Così, Teresa May rappresenta ormai l’ultima “chance” del sistema per poter sopravvivere, un po’ come Macron in Francia, ma si ritrova ingabbiata tra le élite ormai decotte e il popolo sempre più infuriato, cercando disperatamente di ritardare il momento delle dimissioni della May e il momento delle nuove elezioni.
Le élite non hanno più alcuna credibilità e il popolo non vuole più accettare decisioni prese dal Palazzo senza potersi opporre. Si profila anche in gran Bretagna il momento populista, un fenomeno iniziato in Francia da anni da Jean Marie Le Pen e seguito poi dai Paesi dell’Europa dell’est e più recentemente dall’Italia, con l’alleanza di due populismi che sta mettendo fine al regno delle oligarchie onnipotenti e longeve.
Il “paziente inglese” si è inserito nella confusione di una costruzione europea ancora lontana e lo ha fatto per aggiungere confusione dall’interno, favorevole una volta all’euro – e a tutto quello che possa indebolire economicamente il continente – ma nello stesso tempo conservando pervicacemente la sua moneta nazionale originaria.
Oggi gli inglesi sembrano essersi finalmente ricordati di essere isola, molto più sensibili al mare, il loro ambiente tradizionale, che alle stantie terre della nostra vecchia mittleuropa. Dopo la sbornia della vacuità europeista, ritorna il momento, notevolmente più reale, delle contrapposizioni storiche. Ma quando la realtà riprende il suo primato sulle utopie è sempre cosa opportuna e giusta, anche se il messaggio poi dovesse essere quello che ci viene da “Albione”.
Eugenio Preta