Le ragioni dell’indipendentismo siciliano oggi – Dialogo tra uno scettico e un “siciliano libero”
In poche pagine il riassunto di tutte le nostre ragioni.
«Chi sono gli indipendentisti siciliani oggi? Cosa vogliono questi?»
Gli indipendentisti siciliani sono quei Siciliani che hanno maturato una profonda convinzione: che la Sicilia non è una regione italiana ma soltanto una colonia d’Italia. Cioè, storicamente, geograficamente, economicamente, culturalmente la Sicilia è semplicemente una Nazione. E le Nazioni, prima o poi, devono avere un loro Stato sovrano a rappresentarle, altrimenti il suo Popolo non sarà mai libero. Non esiste alcuna altra soluzione strutturale alla Questione Siciliana che non sia l’indipendenza.
«Ma come pensano di coinvolgere i Siciliani? I Siciliani oggi hanno tanti problemi concreti, altri problemi, drammatici: disoccupazione e sottoccupazione altissime, servizi pubblici carenti, infrastrutture in rovina, povertà diffusa, disordine pubblico e corruzione, livelli generali di senso civico e di cultura bassissimi, enti pubblici in dissesto… I problemi veri della Sicilia sono altri. Per quale ragione dovrebbero ‘commuoversi’ per un’idea tanto romantica quanto fuori dal vissuto quotidiano?»
Perché i problemi, drammatici, anzi esistenziali, della Sicilia di oggi non sono una maledizione divina, non dipendono da uno stato di minorità morale dei suoi abitanti. L’origine di TUTTI i problemi della Sicilia è una sola: la ‘Questione Siciliana’. Cioè il fatto che la Nazione Siciliana non è uno stato sovrano. TUTTI i problemi della Sicilia, a cominciare dalla disoccupazione giovanile, nascono proprio da questo. Nasconderlo ai Siciliani è uno strumento coloniale come gli altri. Ma non è solo una “Questione” con la quale magari si può convivere. Risolvere la “Questione Siciliana” è una questione di vita o di morte. Se la Sicilia non si stacca dall’abbraccio mortale con l’Italia, anche per gradi, è destinata a morte sicura, nel giro di una o due generazioni: sparisce, per totale distruzione della sua economia e del suo popolo, e finanche il territorio e i suoi beni culturali potrebbero essere compromessi definitivamente dal saccheggio e dall’incuria. La Questione Siciliana è la madre di tutti i problemi della Sicilia. Chi cerca scorciatoie sul piano della semplice ‘onestà’ e del ‘buongoverno’ sta ingannando i Siciliani.
“Troppo difficile come obiettivo. Meglio occuparsi della propria vita privata. Nemico troppo grosso per essere vinto…»
Certo, non possiamo diventare tutti politici. I cittadini hanno diritto di occuparsi della loro vita privata, di lavorare, di amare, di vivere. Molti si limitano a partecipare alla vita politica il giorno delle elezioni, o tutt’al più informandosi e divulgando informazioni. Però il punto è che oggi questa vita privata in Sicilia è segnata comunque dalla condizione di essere sudditi coloniali. Non si trova lavoro, tanto per cominciare. E senza lavoro non c’è dignità, e quindi non c’è vita privata. Vuoi aprire un negozio, un’attività imprenditoriale, uno studio professionale? La condizione di colonia ti porta tasse altissime, servizi scadenti e mercato stagnante. In una parola, salve le nicchie e salvi i geni o fortunati (e i collaborazionisti del regime), la maggior parte di noi ha le ali tarpate, un peso perenne, un freno, cioè non può avere una serena vita privata. Che vita privata è quella in cui si vedono fuggire i figli e non si vedono mai più i nipoti? Che vita privata è quella di chi perde il lavoro a 50 anni senza speranza di trovare mai più un reddito dignitoso? Certo, non tutti possono essere politici, però oggi la Sicilia ha bisogno di una classe politica nuova, coraggiosa e competente, di “indipendentisti”. Non ci vorrebbe molto, basterebbe un siciliano ogni mille, 5.000 tra attivisti, candidati e classe dirigente vera e propria. Basterebbe questo e nessun nemico, per quanto forte, sarebbe invincibile. Si tratta di selezionarla con pazienza, e di non cercare ‘scorciatoie’ nei partiti nazionali. Ci vuole una fede politica incrollabile nella nostra causa nazionale, scevra da ambizioni personali fini a se stesse. Non è impossibile.
«Ma non vi rendete conto che nell’Italia e nell’Europa di oggi tutto ciò è comunque impossibile? In ogni caso, dopo secoli di unione con l’Italia, un’idea come quella dell’indipendenza può semplicemente spaventare la gente. È una fuga in avanti di una esigua minoranza. Se anche aveste ragione, non sareste capiti dalla massa dei Siciliani.»
Questa accusa è seria. Non la sottovalutiamo. La cultura dominante crea pregiudizi, che possono essere rimossi solo molto gradualmente. Noi pensiamo infatti che un indipendentismo maturo, senza rinnegare se stesso, non debba commettere l’errore di mettere proprio l’indipendenza politica al primo punto della propria agenda. Bisogna spiegare intanto ai Siciliani che la prima indipendenza di cui abbiamo bisogno è quella “partitica”: non è difficile smettere di dare fiducia ai partiti italiani, anche senza diventare per questo da subito uno stato indipendente. Bisogna spiegare che tra Continente e Sicilia c’è un conflitto strutturale di interessi. E, fino a un certo punto, questo conflitto potrà essere risolto dentro il contesto attuale, cioè con un sano autonomismo che arrivi sino al massimo del confederalismo consentito dall’unione politica con l’Italia e, finché regge, anche con l’Europa. Difesa e attuazione dello Statuto, Zona Economica Speciale, fisco e moneta complementare propria, totale devoluzione amministrativa, non sono rinunce alla totale sovranità, ma sono tappe intermedie realistiche. Sono obiettivi concreti che possono e devono mettersi in agenda, e che possono essere convincenti anche per chi ha istintivamente ‘paura’ dell’indipendenza. Poi, mentre l’autogoverno, anche radicale, è essenziale per la sopravvivenza, la piena indipendenza presuppone una maturazione collettiva che ancora in buona parte è da venire. I Siciliani la apprezzeranno quando un partito indipendentista sarà stato per anni nelle istituzioni, guadagnandosi la fiducia dell’elettorato. Comprendiamo che questo gradualismo irrita alcuni fanatici estremisti, nostalgici degli anni ’40. Ma ce ne faremo una ragione, sono pochissimi individui, incapaci di creare consenso, e che anzi – a nostro avviso – hanno fatto letteralmente scappare per decenni i Siciliani normali da un’idea tanto nobile dandone una rappresentazione folkloristica e inadeguata ai nostri tempi.
«Ma poi quest’idea dello ‘Stato di Sicilia’ da dove è saltata fuori? Noi non abbiamo mai avuto uno stato nostro. Prima dell’Italia ci sono state solo dominazioni: fenici, greci, romani, barbari, bizantini, arabi, normanni, svevi, aragonesi, spagnoli, piemontesi, austriaci, borbonici… Quando mai la Sicilia ha avuto uno stato e una cultura propri?»
La scuola italiana ha fatto questo danno, quasi indelebile: ha cancellato la Storia di Sicilia. Un minimo di serietà ed oggettività ci porterebbe a ribaltare il dato. A parte la recente annessione all’Italia, la Sicilia ha SEMPRE o quasi avuto un suo stato e non ha MAI fatto parte dell’Italia, nemmeno ai tempi dell’Impero Romano quando era una provincia tra le altre. La storia ci dice questo. La Sicilia antica era indipendente, la ‘colonizzazione’ greca era di popolazione, non politica; in altre parole non erano dominatori stranieri, ma semplicemente i nostri avi. Parlare di ‘dominazione greca’ è come dire che oggi gli USA sono sotto dominazione inglese, un non senso. Poi, già dalla seconda fase della cd. dominazione araba, a metà del IX secolo, e fino ai primi del XIX secolo, per circa 1000 anni quindi, la Sicilia ha avuto un proprio stato: nella sua fase più matura, il Regno di Sicilia. Uno Stato sovrano, con tanto di leggi, parlamento, esercito, moneta,… Le c.d. dominazioni sono state semplicemente quasi sempre solo cambi di dinastia: mai esistita una “dominazione sveva” o una “dominazione borbonica”. Tutt’al più, per 400 anni circa, mancanza di re proprio e unione personale con re stranieri. Ma quei re stranieri, all’atto di prendere la Corona di Sicilia, giuravano fedeltà alle Costituzioni e Capitoli del Regno. Insomma un vero stato sovrano. Persino Garibaldi, per annettere la Sicilia, dovette prima simulare di ricostruire lo Stato di Sicilia sottraendolo alla effimera unione delle Due Sicilie. E a poco vale dire che quello Stato era espressione dell’aristocrazia per cercare di sminuirlo. Quella era la classe dirigente del tempo e tutta l’Europa, almeno sino alla fine del XVIII secolo, non era molto diversa dalla Sicilia. Le ultime costituzioni, infine, quelle del 1812 e del 1848, erano del tutto all’avanguardia per i tempi. La Sicilia ha la storia di un paese europeo normale, anzi di uno dei più ricchi e nobili. La cattiva luce in cui la mette la storiografia contemporanea italiana, anche locale, è soltanto un sottoprodotto ideologico della dominazione coloniale, del tutto privo di rigore scientifico.
«Va bene, abbiamo avuto per 1000 anni lo Stato di Sicilia, a tacere di quello pre-romano, ma sono cose lontane nel tempo. In che senso oggi la Sicilia è una colonia? Non è che fate il solito vittimismo piagnone?»
È molto comodo dare del vittimista a chi vittima lo è per davvero. Quanta parte degli investimenti pubblici dedica oggi (e da sempre) lo Stato italiano alle proprie colonie interne? Di quale continuità territoriale godono oggi i Siciliani, quando sono costretti a volare in Italia anche per funzioni elementari come studiare o curarsi, che dovrebbero trovare nella loro “regione”? Come dobbiamo definire una terra che è a servizio di un’intera nazione per l’approvvigionamento energetico e che, in cambio, ha il costo dell’energia più alto del paese? Che opportunità ha oggi un siciliano di costruire serenamente la propria vita nella propria terra? Questo sarebbe un paese libero? Ma libero di che? Di emigrare e basta. Colonia è un territorio che esporta materie prime a buon mercato (prodotti agricoli, ittici, energetici, risorse umane) e importa a caro prezzo tutto il resto dal dominatore. Colonia è un territorio costretto a passare per il brokeraggio e l’intermediazione del paese colonizzatore. Colonia è un paese che, persino dove le fonti di ricchezza non sono trasferibili, vede trasferire il capitale di controllo e quindi i profitti. Colonia è un territorio senza sistema bancario proprio, preda di comitati d’affari esterni. Colonia è ancora un territorio in cui ci sono guardiani locali dello sfruttamento esterno ai quali vengono lasciate alcune briciole, per gestire il potere clientelare necessario allo sfruttamento. Colonia è un paese abbandonato a se stesso dal proprio stato di appartenenza su problemi vitali (gestione migranti, dissesto dei comuni,…), e che viene chiamato a pagarsi da solo, tolto ciò che resta dalle rapine dello stato e dei poteri forti continentali, tutte le proprie esigenze. Colonia è infine un paese soggetto a servitù militari senza alcuna contropartita economica. La fotografia della Sicilia di oggi in pratica.
«Dite che la Sicilia non è Italia. Ma questa affermazione è contraddetta da tutto ciò che osserviamo. Noi parliamo italiano come gli italiani, partecipiamo della letteratura e della cultura italiana, fino alla musica leggera e allo sport, non ci sono differenze religiose. In cosa consisterebbe questa differenza?»
Questo è semplicemente un falso problema. Le colonie sono per definizione assimilate dal paese colonizzatore. Ancor oggi maltesi e indiani considerano l’inglese quasi la loro lingua madre, ma non per questo sono diventati tutti inglesi. La religione poi non c’entra proprio nulla. Primo perché gli stati moderni sono laici, e poi perché il cattolicesimo, come confessione più diffusa, ci accomunerebbe agli italiani, ma non meno che agli spagnoli, ai polacchi o ai filippini. E così dicasi per il comune ceppo latino del siciliano con l’italiano. L’Austria parla in tedesco, mezzo Belgio parla in francese, e quasi tutta l’Irlanda in inglese. Eppure nessuno oggi sano di mente penserebbe di annetterli al paese vicino.
La cultura e l’arte italiana appartengono anche a noi, e allora? Potremo ascoltare musica italiana o assistere alla Formula 1 anche da paese indipendente. Persino la nazionale di calcio italiana sarà più amica e simpatica quando gli italiani saranno i nostri vicini, e non più i nostri dominatori. E comunque noi, oltre a una cultura “italiana” regionale dai caratteri marcatissimi, abbiamo anche una lingua, una cultura, un’arte, una musica, una letteratura specificamente nostre. Quello che manca è solo il riconoscimento ufficiale e la tutela pubblica. I Siciliani, in cuor loro, nonostante tutto il lavaggio di cervello subito da secoli, prima si sentono siciliani, e poi qualunque altra cosa. L’identità siciliana è fortissima e ineliminabile. Basta cercarlo dentro di noi, e lo Spirito del Vespro ruggisce ancora.
«Ma anche dal punto di vista economico… È facile dire ‘lo Stato ci sfrutta’. Ma secondo molti questo dipende solo dalla qualità dei nostri rappresentanti. Non si possono eleggere persone migliori, anche dentro i partiti italiani?»
Altro luogo comune duro a morire. E che fa il “politico siciliano onesto”, quando il suo segretario (o padrone nei partiti padronali che oggi non mancano) gli ordina di tacere sui conflitti tra Italia e Sicilia? Deve scegliere, tra la propria carriera e la propria Terra. Sino ad oggi abbiamo visto sempre e soltanto che hanno scelto la propria carriera. Parliamoci chiaro: dentro i partiti italiani per la Sicilia ci saranno sempre e soltanto briciole. Non si può fare sul serio.
«Ma quando gli indipendentisti si presentano alle elezioni difficilmente ottengono rappresentanza. Non vi sentite un po’… minoritari?»
Il punto non è che i Siciliani non votano indipendentista. Il punto è che i Siciliani non votano e basta. Sono scoraggiati. Non ci credono più. Se votano, è per qualche favore. E quando vanno a votare e non è per un favore, la disinformazione di regime fa optare per populismi italiani. È necessario conquistare la fiducia dei Siciliani. Ci vuole tempo, credibilità e perseveranza. Del resto abbiamo un alleato: il fatto che non ci sono alternative serie. Mai scoraggiarsi.
«In ogni caso questo problema è comune a tutto il Mezzogiorno. Non sarebbe meglio rifare quindi il ‘Regno delle Due Sicilie’?»
Abbiamo già dato, no grazie. La Questione Siciliana si inserisce – certo – nella questione meridionale, ma quest’ultima è più vasta e complessa e non è detto che abbia un risvolto nazionale proprio. I meridionali sono meno indipendentisti di noi, e ci legherebbero per sempre al sistema Italia. Ci possono essere tante convergenze su temi specifici, ma non abbiamo alcuna intenzione di liberarci della dominazione italiana per diventare colonia di mezza Italia. Sarebbe anche peggio. Anche i meridionalisti devono smetterla di rivendicare la Sicilia e solo così faremo più strada insieme. Forse per questo talvolta ci troviamo meglio a dialogare con i Sardi, perché non hanno rivendicazioni sulla Sicilia ma si considerano fratelli su un piano di pari dignità.
«In ogni caso abbiamo già l’Autonomia. Se è stata tanto dannosa l’Autonomia, addirittura vogliamo l’indipendenza?»
Altro luogo comune: “Avete l’Autonomia”. Niente di più falso. Intanto perché, anche se l’avessimo, un’Autonomia affidata ai partiti centralisti non potrebbe mai funzionare. Ma poi non c’è proprio nei fatti. L’Autonomia prevede che la Sicilia prenda tutte le entrate, e che possa anche manovrare i tributi creando la fiscalità di vantaggio, e in cambio la Sicilia si dovrebbe prendere tutta la spesa pubblica. Allo Stato dovrebbero restare solo la difesa e gli esteri, e trattenere qualche tributo secondario per pagarsi queste spese, un contributo alle spese centrali e un contributo al contrario verso la Sicilia (il Fondo di Solidarietà Nazionale) per recuperare il gap infrastrutturale. Nella realtà tutto ciò si è tradotto nell’accollare ai Siciliani soli più del 90 % della spesa pubblica, quasi tutto, mentre gran parte delle entrate se la prende comunque lo Stato, violando lo Statuto da più di 70 anni. Ogni anno lo Stato deruba la Sicilia, violando lo Statuto che è Costituzione, di circa 10 miliardi di euro. Di manovrare le imposte non se ne parla, di organizzare autonomamente i nostri servizi pubblici nemmeno, la corte di cassazione siciliana non esiste, l’Alta Corte per i conflitti tra stato e regione è stata disattivata dal 1956 senza mai essere formalmente abolita, l’autonomia legislativa ridotta a potere solo recepire senza modifiche le norme statali. Ma di quale autonomia stiamo parlando? L’autonomia non c’è quasi mai stata, e ora meno che mai. Si traduce solo in una discriminazione continua nei confronti dei Siciliani che danno tutte le loro entrate allo Stato, il quale – proprio perché siamo autonomi – ne restituisce una piccola parte alla Sicilia con cui poi dovremmo provvedere a tutto. Certo che non funziona. L’Autonomia vera, o meglio l’Indipendenza, sarebbero cose completamente diverse.
«Ma abbiamo una classe politica di corrotti e incapaci. Forse è meglio che l’Autonomia non ci sia mai stata. Vi immaginate quello che avrebbero fatto se avessero potuto veramente decidere qualcosa?»
Davvero? Peccato che nelle poche cose che sono rimaste a carico dello Stato (come grandi strade e ferrovie) la “cura” sia stata ancora peggiore che quella mostrata dalla Regione nelle funzioni a questa devolute (quasi tutte). Peccato che dove “comanda lo Stato”, come nei beni culturali del Sud Continentale (vedasi lo sfascio di Pompei) le cose funzionino ancora peggio. Con questo non vogliamo difendere gli ascari che rappresentano lo stato e i partiti italiani e che hanno gestito negli anni il carrozzone pubblico, dalla Regione ai Comuni. Vogliamo soltanto dire che i Siciliani non sono geneticamente “peggiori”. È solo che i partiti coloniali e centralisti generano una politica clientelare e mediocre. Il passaggio logico che sfugge a non pochi siciliani è questo: finché ci sono questi incapaci, non c’è pericolo di vera autonomia o indipendenza perché questi sono geneticamente “italiani”; se ci fosse vera autonomia o meglio indipendenza vorrebbe dire che questa classe politica di corrotti e incapaci già è stata mandata a casa dai Siciliani, e quindi non ci sarebbe nulla da temere.
«In ogni caso, esiste un partito indipendentista in grado di intercettare questo programma e condurre alla liberazione la Sicilia o sono solo gruppuscoli isolati e litigiosi?»
Un primo nucleo di partito indipendentista ormai c’è; la frammentazione di qualche anno fa è superata. Si chiama “Siciliani Liberi”. Sta facendo uno sforzo titanico per affermarsi sulla scena politica siciliana. Si tratta solo di dare fiducia a questo partito indipendentista e farlo crescere. Se non lo aiutiamo a crescere, con la nostra militanza, con il nostro aiuto finanziario, con la nostra fiducia alle elezioni, se votiamo sempre per i partiti italiani non possiamo poi lamentarci che il soggetto non ci sia.
«Come fa però questo partito a spezzare le catene del voto clientelare? Non c’è il rischio comunque che i Siciliani continuano, magari per bisogno o per ignoranza, a dare il voto ai loro nemici?»
E allora? Dobbiamo mettere le bombe? Diamo ai Siciliani l’indipendenza anche se non la vogliono? Ci sono milioni di siciliani che non votano per clientele, ma non votano più. È la loro fiducia che dobbiamo raccogliere, e intanto dare loro voce. Poi, certo, senza arrivare al voto clientelare, gli indipendentisti devono avere il coraggio di scendere nel concreto, rappresentare interessi e categorie concrete. Devono imparare dai politici tradizionali, senza prenderne i vizi. Con il solo idealismo non si va avanti, ma l’ideale può diventare endemico, tra i giovani, tra i lavoratori, tra gli imprenditori. L’indipendentismo può e deve diventare il sale di questa terra. Male che vada avremo dato rappresentanza a questa Sicilia sana anche se non fosse ancora maggioritaria.
«Non è meglio commissariare la Sicilia direttamente, come dice qualcuno, magari da un norvegese?»
Sono riusciti a farci odiare tanto noi stessi da diventare ciechi. Solo un cieco penserebbe che il commissario esterno non finisca prima o poi per trasformarsi in un governatore coloniale. Eppure siamo stati commissariati di recente, per cinque anni, con gli Assessori all’Economia nominati direttamente da Roma. E i risultati sono stati disastrosi. I “commissari” fanno sempre gli interessi dei “committenti”, mai dei “commissariati”, non dimentichiamolo mai.
«Ma la Sicilia indipendente non rischierebbe di diventare lo ‘Stato della mafia’?»
E magari le cosche chiederebbero il pizzo? E magari qualche magistrato che vuole combattere la mafia sarebbe pure ucciso? E magari lo Stato finirebbe per fare una trattativa con la mafia? Insomma, questa è la descrizione perfetta della Sicilia italiana. Teniamo conto che Cosa Nostra è nata sotto la benedizione della dominazione italiana. Mai, nei secoli di storia precedente, in cui pure non mancavano atti di prepotenza feudale, era esistita una vergogna così infamante. Da quando non pochi siciliani hanno capito che la mafia è stato lo strumento con cui l’Italia ha tenuta soggetta la Sicilia, questa ha perso legittimazione. Oggi la mafia è un problema mondiale, certamente italiano. Per contro, per quanto non si debba mai abbassare la guardia, la nostra vecchia mafia, Cosa Nostra soprattutto, è realmente in declino. Il suo brodo di coltura residuo è l’economia assistita e la latitanza dello stato. Con un forte Stato di Sicilia i mafiosi potrebbero solo chiedere asilo politico in Italia. La pacchia per i delinquenti finirebbe.
«Ma comunque siamo poveri. Da soli non ce la facciamo. Secondo la stampa italiana siamo la ‘pietra dello scandalo’, l’isola degli sprechi e dei privilegi»
Non c’è alcuna evidenza empirica che la corruzione siciliana sia superiore a quella media italiana, nessuna. Né che qui ci siano sprechi o privilegi speciali. Si tratta di una montatura mediatica funzionale al saccheggio; potremmo dire il linciaggio finalizzato al saccheggio della Sicilia. Dateci le TV, e raccontiamo noi ai Siciliani come stanno realmente le cose. La Sicilia non riceve una lira dallo Stato, anzi, paga un biglietto salatissimo per far parte di questa Repubblica. A bocce ferme, se già ci riprendiamo la nostra IRPEF e IVA, se facciamo pagare le imposte in Sicilia a tutte le società che qui producono ricchezza si risolve ogni cosa. Ma … a bocce ferme. Con l’indipendenza, con la sovranità monetaria, con la fiscalità di vantaggio, con il ritorno dei cervelli, in breve la Sicilia diventerebbe uno dei paesi più ricchi al mondo. La Sicilia è ricca di tutto: beni culturali, risorse energetiche, bellezze naturali, posizione geopolitica unica, alimentazione unica, ma soprattutto un Popolo eccezionale, al quale però bisogna restituire identità e autostima.
«Ma siamo nell’era della globalizzazione. Come farebbe la piccola Sicilia a sopravvivere in mezzo ai colossi delle superpotenze?»
Se questo ragionamento fosse vero, i cittadini del Lussemburgo, della Danimarca, della Svizzera, di Malta, sarebbero i più infelici al mondo, mentre i cittadini americani o cinesi o indiani dovrebbero sentirsi i più fortunati al mondo. Semplicemente falso. La maggioranza degli stati europei ha dimensioni paragonabili a quelle della Sicilia.
«E in ogni caso votare per “Siciliani Liberi” è dispersione. Bisogna dar forza ai partiti forti se si vuole veramente incidere.»
Vero, ma chi decide se un partito è forte o no? Alla fin fine il nostro voto. La cosa più importante non è votare il partito forte, ma il partito giusto; votarlo, votarlo, votarlo, finché il “nostro” partito non diventa forte. Ci sono molti Siciliani che invece decidono di non votare “Siciliani Liberi”, ma che dicono di osservarlo con attenzione: “se raggiungete il 5 % allora vi voto”. Ma se tutti facessero questo ragionamento, la loro speranza di vederci crescere resterà frustrata. Se vogliono farci crescere non devono aspettare, non devono fare troppi calcoli, anzi devono ora darci fiducia. Se ci comporteremo male ci tolgano pure questa fiducia, o creino altri partiti siciliani. In ogni caso “siciliani”. Dai partiti italiani non arriverà mai nulla di buono, almeno di significativo. Poi, tatticamente con i partiti italiani si può e si deve parlare. Ma votarli no, mai, è “peccato mortale” per chi ha finalmente compreso l’essenza della Questione Siciliana.
«Cosa farebbe dunque ‘Siciliani Liberi’ se avesse consistenti consensi? E, in ogni caso, cosa farebbe se non raggiungesse la maggioranza.»
Bella domanda. Dipende dal livello delle consultazioni e dal livello dei consensi. A livello amministrativo (comuni, comunque a livello locale) si potrebbe solo comportare con la diligenza di un buon amministratore. Dovrebbe dare l’esempio di come si possa cambiare completamente la cultura politica di questa terra. Ma non potrebbe certo cambiare tutto. Insomma si potrebbe comportare da “buona lista civica”, e infatti è con le sane liste civiche che dialoghiamo a quel livello. Non si può risolvere la Questione Siciliana dai Comuni, a meno che non ne avessimo un centinaio già “liberi”. Ma non è obiettivo immediato. A livello statale o europeo, si tratta solo di dare un “diritto di tribuna”, ambasciatori/avvocati che difendano la Sicilia in quelle sedi.
Ma il luogo naturale per la nostra presenza è il Parlamento Siciliano. E lì, se abbiamo la maggioranza, la strategia è segnata: prima negoziazione immediata di provvedimenti per la sopravvivenza della Sicilia, oggi minacciata, poi grande programma di riforme nel segno dell’attuazione dello Statuto e della costituzione della Sicilia in Zona Economica Speciale. A differenza di altri siamo pragmatici. Se non ce la facciamo a governare da soli, dobbiamo accettare qualche integrazione o limitazione al nostro programma. Se, al contrario, ci viene chiesto l’appoggio, dobbiamo portare a casa almeno alcuni obiettivi di vitale importanza per la Sicilia. Altrimenti faremo opposizione, costruttiva, ma opposizione. Si comincia così. Questa è la democrazia, nella quale crediamo per un fatto costitutivo della nostra identità.
E il nostro programma, per dare una scossa economica e sociale è noto. Totale (o pressoché tale) indipendenza finanziaria e tributaria, moneta complementare, totale devoluzione amministrativa, sburocratizzazione, fiscalità di vantaggio, politiche di tutela e valorizzazione di ambiente e beni culturali, politiche di sostegno alla famiglia e alla infrastrutturazione produttiva, zona doganale speciale, favore per le imprese a conduzione familiare, negoziazione intelligente per gli insediamenti di capitale esterno, proprietà pubblica nei settori essenziali dell’emissione monetaria, controllo del credito, reti energetiche e idrauliche. Centralità della persona umana nei servizi pubblici. Centralità del pubblico in istruzione, sanità e previdenza, lasciando spazio naturalmente al privato di alta qualità. E poi, naturalmente, politica culturale e identitaria forte, nella lingua, letteratura, cinematografia, editoria, sport, etc. Questa è la Sicilia che sogniamo. Non ci pare ci siano in giro alternative migliori.
«E se doveste gestire uno Stato sovrano come vi gestireste sullo scacchiere internazionale? Europa o no? USA o Russia? Neutrali o armati? Filo-arabi o eurocentrici?»
Siciliani e basta! Cioè, mi spiego meglio. È presto per definire tutto questo. Ma certamente immaginiamo una Sicilia che abbia una classe dirigente competente e responsabile, che metta l’interesse nazionale al primo posto. Siamo per istinto pacifici, ma non intendiamo disarmarci del tutto. La difesa è una cosa seria. E possiamo dire che saremo amici di chi sarà amico della nostra sovranità. Non possiamo aggiungere altro senza essere potenzialmente succubi di potenze straniere. Di certo non lasceremmo mai lo Stato italiano per sottometterci ad un altro colonialismo. Prima dobbiamo essere sicuri che la nostra sovranità sia garantita internazionalmente. Con l’Europa invece dobbiamo fare i conti. Se i rapporti sono tali da potere mantenere la condizione di Zona Economica Speciale siamo pronti a dialogare. Se qualcuno pensa che vogliamo liberare le nostre politiche finanziarie dall’Italia per metterle nelle mani della BCE o della Germania si sbaglia di grosso. In tal caso la Sicilexit sarebbe il male minore. L’Europa ha bisogno della Sicilia molto più di quanto noi non abbiamo bisogno dell’Europa. Anche l’euro è una moneta sbagliata. Non solo nell’interesse della Sicilia, ma di tutta l’Europa, se si vuole salvare, come moneta comune, non come moneta unica, dovrà cambiare radicalmente. Ma noi siamo pronti a farci la nostra moneta e ad essere indipendenti sino in fondo. Quando saremo pronti naturalmente.
«Un’ultima cosa. Spesso gli indipendentisti parlano di ‘sovranismo’. Dicono che in Sicilia sono loro i veri sovranisti. Ma che intendete per sovranismo? Siete di destra o di sinistra?»
Il sovranismo è il futuro. E il sovranismo è “oltre” la distinzione tra destra e sinistra. C’è chi, contro le devianze della globalizzazione, si rifugia nell’estrema destra. È un grave errore. Perché la democrazia, la libertà, anche di iniziativa economica privata, l’uguaglianza, i diritti sociali, non sono valori negoziabili. E così l’amor patrio non può mai scadere nel gretto nazionalismo, o nel confessionalismo, o nel razzismo. Però, detto questo, va detto altrettanto chiaramente che è ora di difendere i diritti dei popoli contro il capitale apolide. È questa la vera rivoluzione che ci attende. Un ritorno alla persona umana, alla famiglia, alla società civile e alla patria, alla cultura locale in ogni cosa, fino all’alimentazione. Tutto ciò che oggi un malinteso “politicamente corretto” o la “legge di mercato” tentano di svuotare o di stravolgere. Tutti devono poter costruire la propria vita nel loro Paese di nascita, e l’interesse pubblico, il bene comune, deve essere anteposto a quello privato, che pure non deve essere mai schiacciato. Noi guardiamo talvolta con preoccupazione a tutto ciò che viene dai cosiddetti “paesi avanzati”. Talvolta sono avanzati solo nella destrutturazione della società. In questo la Sicilia potrebbe essere una vera avanguardia per il mondo intero. Abbiamo una società da ricostruire sulle macerie della colonizzazione italiana. Abbiamo un dovere di autodifesa contro lo svuotamento demografico, culturale ed economico. E se ogni popolo ha i propri sovranisti, noi abbiamo i nostri, i “Siciliani Liberi”.