Repubblica Federale tedesca: l’equivoco della formazione del governo
L’organizzazione politico-istituzionale della Repubblica federale tedesca sembra stia attraversando un periodo di crisi profonda: Angela Merkel e Martin Schulz, i presunti vincitori delle ultime elezioni legislative, appaiono fiduciosi ma sono d’accordo soltanto sulla necessità di formare un governo di “coalizione” per evitare nuove elezioni. Responsabili entrambi di una Germania senza governo da oltre 4 mesi, i due leader comunicano di aver firmato un pre-accordo di governo che – al contrario da quanto avviene nella CDU-CSU dove si rifiuta ogni tipo di coinvolgimento degli iscritti – dovrà essere sottoposto all’approvazione dei militanti SPD, divisi dalle beghe interne originate dall’uomo che si inventò una carriera politica grazie alla lite con l’allora Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, a Strasburgo.
Un cursus honorum da statista predestinato, quello di Martin Schulz, per due volte presidente dell’euro-parlamento, poi candidato cancelliere e oggi autonominatosi ministro degli esteri dell’eventuale governo di coalizione, alla faccia degli accordi intercorsi con il presidente dell’SPD, Sigmar Gabriel, che aveva lasciato a Schulz la candidatura per la cancelleria dietro l’ assicurazione di una sua riconferma come ministro degli esteri.
Oggi la confusione regna sovrana a Berlino in seguito al risultato delle passate elezioni legislative che, ricordiamo, hanno registrato il 20,1% dei voti all’SPD, il 32,9% alla CDU/CSU, mentre addirittura il 24% dei tedeschi non è neanche andato a votare. La maggioranza che oggi possono raccogliere CDU/CSU e SPD è estremamente flebile, tanto più che l’Alternativa per la Germania, AFD, ha ottenuto il 12% dei suffragi, divenendo il terzo partito tedesco nonostante la “diabolizzazione” mediatica che lo definisce partito populista e razzista perché contrario all’immigrazione.
Merkel e Schulz hanno quindi ritenuto di sacrificarsi per “salvare la Germania”, by-passando le loro differenze sostanziali, specialmente in ambito di politica economica. La soluzione più logica sarebbe stata quella di tornare alle urne, ma avrebbero trovato la netta opposizione dei poteri forti e delle oligarchie governative che, sicuramente a giusto titolo,avrebbero rischiato di essere azzerati da un voto popolare a favore dell’AFD.
La sindrome della classe politica tedesca sembra essere la paura del popolo. Solo la Baviera, dopo la II guerra mondiale, è riuscita a dotarsi di una legislazione sui referendum di iniziativa popolare, che ricalca il modello svizzero di democrazia partecipata perché i giuristi che hanno redatto la costituzione del Lander erano gli stessi che, all’epoca del III° Reich, si trovavano in esilio in Svizzera.
Solo dopo la riunificazione tedesca l’istituto delle democrazia diretta è stato iscritto nella costituzione di molti Lander, ma non in tutti. Il ricorso al referendum è previsto soprattutto nei lànder dell’est che, memori della passata esperienza sotto il regime comunista – dove il partito pretendeva di essere la voce del popolo – non erano più disposti ad accettare le leggi votate senza la consultazione del popolo. Un fatto paradossale: mentre nelle vecchie città ex-comuniste, il referendum consentiva al popolo di impugnare le leggi votate dal parlamento, in Occidente questo non si poteva fare. A poco a poco quindi le Costituzioni dei lander dell’ovest si sono allineate al modello del’Est, verosimilmente più democratico per reazione anti-comunista.
In verità Il vecchio cancelliere socialista Helmut Schroder aveva tentato di iscrivere il referendum nella Costituzione federale, ma la CDU si oppose tanto che l’introduzione del referendum di iniziativa popolare si approvò a maggioranza semplice, una difficoltà procedurale che impedisce, ancora oggi, di cambiare la Costituzione dal momento che implica il voto favorevole di una improbabile maggioranza dei due terzi. Ne deriva che in Germania non viene previsto, a livello Federale, l’istituto del referendum di iniziativa popolare che esiste solo in determinati lànder. Ciò vuol dire che i veri detentori del potere rimangono le coalizioni di partiti, relegando all’angolo il popolo che si sente sempre più escluso (la decisione di aprire le frontiere ai migranti, ad esempio, è stata una decisione autonoma della cancelliera Merkel, che non aveva l’obbligo di consultare il popolo né il parlamento).
Il sistema istituzionale federale sembra quindi profondamente in crisi, smarrito nelle diatribe di partiti divisi su tutto con una classe politica, costituitasi ormai in casta, come del resto avviene in molte “sedicenti” democrazie occidentali, che si ritrovano d’accordo solo sull’impedire in ogni modo ai cittadini di tornare a votare.
Eugenio Preta