Ultraliberalismo e sovranismo sociale
I popoli sono davvero stanchi delle eterne e artificiali querelle tra destra e sinistra ormai superate da quando l’Unione europea ha approvato il testo del trattato di Maastricht. Non credono più in un’Europa che doveva appartenere agli europei e che invece è solo interessata alla salvaguardia degli interessi delle banche e delle multinazionali. Si spera sempre in una nuova organizzazione politico-economica che possa essere più attenta alle tutela delle esigenze e dei bisogni della gente.
Una nuova dottrina, adeguata alle mutate esigenze del mondo, che si opponga fatalmente al liberalismo dilagante: il “sovranismo sociale”, così come viene definito, con molta ironia e malcelato timore, dalle “élites” di Bruxelles. Alla luce del nuovo sentire del cittadino-frustrato dalle politiche sopranazionali che ne hanno ridotto lo stato sociale e che richiede maggiore attenzione alle sue peculiarità nazionali piuttosto che a quell’iperuranio federalista e livellatore, come si è rivelata l’UE, assistiamo alla convinzione che la vecchia Europa, quella idealizzata dal trio Adenauer, De Gasperi e Schuman, abbia perso di significato e l’idea di un’Europa più reale sia tornata ad essere quella di Jean Monnet: un piccolo numero di paesi, organizzati in comunità stretta per difendersi, altro che dalle guerre – ormai esportate altrove dalle nostre industrie belliche – ma dalla temibile concorrenza anglo-sassone.
La sola difesa possibile era stata quella di barricarsi dietro trincee ritenute allora insuperabili, come la tariffa doganale comune o la politica commerciale che si voleva comune nei rapporti con tutti i paesi terzi: in definitiva la sublimazione di quella preferenza comunitaria, dottrina ambiguamente soppressa poi col Trattato di Maastricht.
La base ideologica della costruzione dell’Europa teorizzata, non ci stancheremo mai di ripeterlo, dal conte Richard Nikolaus Eijiro von Coudenhove-Kalergi, con il suo movimento Pangermanesimo del 1923, diventato Paneruopeismo nel 1955, ha teorizzato sin dall’origine la costruzione di un’unione di popoli su base federale. Oggi, quel dogma federalista, che pure potrebbe essere giustificato in tempo di sviluppo e progresso, di fronte agli sfasci della mondializzazione che si abbatte principalmente sulle classi medie e che ha scatenato la grave crisi economica che tutti viviamo, sembra avere perso tutto il suo “appeal”. Ritorna quindi di stringente attualità la necessità di politiche economiche che privilegino le produzioni nazionali e si applichino ad organizzare a livello europeo la protezione degli Stati, proprio per evitare quei danni sociali ed economici, ritenuti oggi causa determinate di quel populismo dilagante, bollato come l’impeto dell’ignoranza di fronte alla suprema intelligenza della globalizzazione.
Il conflitto manicheo tra supposto bene e male confermato, genera da una parte la richiesta di un populismo economico che si opponga alla mondializzazione ritenuta – ormai a torto – un’opportunità perché permette di banalizzare le peculiarità e le produzione nazionali, dall’altra si insiste sul valore dell’internazionalizzazione, sottolineando come tutti i prodotti debbano sempre qualcosa alla globalizzazione: nel comparto servizi ad esempio, il turismo, la sanità, lo sport o la cultura, o nel settore dei beni industriali l’energia,i minerali, l’informatica e la tecnica industriale.
Una confusione assoluta che non basta a constatare l’eventuale saldo positivo o negativo che si voglia di una mondializzazione senza regole che ha condannato a morte l’artigianato locale, l’agricoltura nazionale e le produzioni di eccellenza; una globalizzazione che ha lasciato alle imprese nazionali colpite da forte recessione un‘ultima speranza di sopravvivenza nella delocalizzazione, sempre in continuo preoccupante aumento.
Gli americani, spesso assunti come modello propositivo, sembrano averlo capito iniziando, ad esempio, una politica fiscale per mettere regole alle importazioni negli Usa di prodotti che danneggiano intere filiere importanti della vita economica del Paese come gli elettrodomestici, i pannelli solari, l’industria alimentare, e quella industriale. Hanno perciò istituito la tassa dal 30 al 50% alla frontiera, il Border Adjustement Taxes, nella convinzione che la concorrenza potrebbe migliorare la vita del cittadino e della Nazione. Secondo l’attuale amministrazione Usa, infatti, un’industria può anche sopravvivere se non ha velleità di esportare, ma muore ingiustamente se è confrontata a prezzi abusivamente bassi, vietati e sanzionati dalla legge.
Ogni Stato ha senza dubbio il diritto di tutelarsi sul piano internazionale, ma ha anche il dovere di poterlo fare sul piano interno, ed il cittadino si è sempre dimostrato il migliore economista a dispetto di scienziati e ricercatori titolati.
Il liberalismo, lo ripetiamo, deve essere sempre un mezzo per il benessere di uno Stato e non potrà mai essere un fine ultimo e men che mai una dottrina troppo affrettatamente assunta come motore di un’Unione europea che arranca distante dai popoli. Così, l’internazionale ultra-liberale che domina oggi il continente europeo, si rivela pericolosa quanto quella socialista quando si pone gli stessi bersagli da colpire e gli stessi obiettivi da abbattere: gli Stati Nazione e i cittadini che li compongono.
Eugenio Preta