L’elezione alla presidenza delle repubblica Ceca di Milos Zeman segna la sconfitta delle politiche europee e rafforza i Paesi del gruppo Visegrad
Miloš Zeman, presidente uscente della Repubblica Ceca, è stato riconfermato con oltre il 62,8% dei voti, a capo del suo Paese per un nuovo mandato di cinque anni.
I cechi erano stati chiamati a rinnovare la suprema carica dello Stato scegliendo, tra il sedicente populista Zeman – ostile ai flussi migratori e favorevole ad intrattenere buone relazioni con Russia e Cina – ed il suo avversario Jiří Drahoš, un professore universitario, candidato liberale ed europeista convinto. Il motto delle campagna elettorale di Zeman è stato: “Il Paese è nostro, opponetevi ai migranti e a Drahoš”, una posizione anti-liberista e contraria a questa Unione diventata solo un grande mercato senza controlli né regole, quindi implicitamente euroscettica e per di più dichiaratamente favorevole alla levata delle sanzioni votate dall’Europa nei confronti della Russia.
Dall’analisi dei suffragi ottenuti appare evidente come la strategia di Zeman, che si è rivolto al popolo ceco e soprattutto alla classe degli operai e dei lavoratori meno qualificati, si sia rivelata vincente, più di quella del suo sfidante che, secondo i dati dei risultati, sembra aver fatto breccia maggiormente nella zone borghesi delle grandi città dove la popolazione è più favorevole all’Unione europea, ottenendo un risultato importante tra i quadri dirigenziali e nel settore delle professioni intellettuali.
Per la secondo volta – dopo il cambiamento della Costituzione avvenuto nel 2012 – il popolo ha potuto eleggere direttamente il suo presidente, ancora oggi una funzione meramente rappresentativa, pur se nomina i magistrati e il direttorio della Banca centrale e decide l’incarico per la formazione del governo centrale, sempre un punto di riferimento istituzionale importante per l’opinione pubblica.
Già nel 2015, nel momento dell’apogeo della crisi dei flussi migratori, Zeman si era dichiarato profondamente convinto che questi movimenti di profughi avessero più le caratteristiche di un’invasione organizzata, piuttosto che di un movimento spontaneo di emigrazione, aggiungendo di non voler lasciare ad un ente burocratico supernazionale, la gestione dei confini che deve rimanere sovranità peculiare dello Stato e per questo di essere pronto a difendere persino con la forza le frontiere del Paese.
Nel corso delle legislative dello scorso anno, due partiti ritenuti dai media europei antisistema e quindi euroscettici: ANO 2011 – “Alleanza dei Cittadini Scontenti” del discusso miliardario Andrej Babiš – e il partito SPD – “Libertà e democrazia”, la destra guidata da un ceco di origini giapponesi Tomio Okamura – avevano ottenuto un risultato lusinghiero che aveva fatto gridare al pericolo nazionalista le forze progressiste democratiche della burocrazia di Bruxelles.
Oggi, la vittoria di Zeman conferma la supremazia dei partiti sovranisti del gruppo di Visegrad che si oppongono alle politiche di Bruxelles e sottolinea la tendenza generale che si sviluppa appunto in seno ai quattro paesi di Visegrad, che vede la Polonia governata dai conservatori del PiS, diritto e giustizia; la Slovacchia condotta dal primo ministro social democratico Jan Fico – al governo con i “populisti” dell’SNS e che si oppone all’accoglienza dei migranti islamici – e l’Ungheria diretta dal democristiano Viktor Orbán, ancora oggi vicepresidente dell’internazionale democristiana PPE, che si oppone categoricamente alle politiche in materia migratoria che l’Europa intende imporre agli Stati membri.
Gli elettori di Zeman, hanno deciso quindi – come avevano già fatto i loro vicini polacchi, ungheresi ed austriaci – di intraprendere la via impopolare per Bruxelles ma non per i cittadini, della democrazia anti-liberale e di rifiutare quei principi della società aperta tanto cara al miliardario americano George Soros.
Eugenio Preta