Le direttive culturali europee e la tutela dei migranti
Le numerose analisi sulla politica culturale dell’Europa a proposito di rifugiati appaiono sempre ispirate alla compassione umanitaria, declinata in tutte le salse, che giungono tutte alla stessa conclusione: i progetti devono essere finalizzati alla prospettiva del benessere dei rifugiati e mai diretti, come si dovrebbe, ad una loro effettiva e necessaria integrazione.
La critica che si muove alle politiche europee di integrazione, descritte come conseguenze di un approccio autoritario e calato dall’alto, è quella che implicitamente richiama alle pratiche del vecchio colonialismo europeo, basato sull’imposizione di comportamenti standardizzati. Oggi nel linguaggio comunitario la parola d’ordine non sembra più essere “integrazione” bensì “inclusione”, nel senso peggiore del termine cioè “far posto”. Così facendo potrebbe crearsi una profonda trasformazione della società europea che non sarebbe più un “tutto” da tutelare ad ogni costo, ma semplicemente il luogo di quell’auspicato dialogo interculturale, che dovrebbe aiutare i rifugiati a connettersi con la nuova società di accoglienza, salvaguardandone la loro autonomia.
Dall’universale al particolare: la crisi dei rifugiati, quindi, non sarebbe più la crisi sociale e della sicurezza con cui si confronta quotidianamente l’Unione europea, ma diventerebbe soltanto una crisi interna all’essere stesso di rifugiato, crisi che colpirebbe solo i migranti, traumatizzandoli e rendendoli insicuri. Da qui la necessità che i progetti culturali finanziati dall’UE debbano essere principalmente orientati a ristabilire psicologicamente il benessere e l’autostima del migrante; progetti culturali che alla fine significherebbero solo una sorta di camera caritatis in luoghi di commiserazione e di piagnisteo.
Politiche che, sostanzialmente banalizzano la società europea e la identificano non più come una comunità, ma solo come un insieme di individui ognuno con i suoi diritti particolari da tutelare prioritariamente, posizionando infine il migrante al livello degli autoctoni che devono avere come obbligo morale quello di prendersi cura di esso, del suo benessere e di favorire la piena autonomia. Si attua praticamente il dogma del liberismo che prevede solo diritti ed emancipazioni individuali senza, di contro, sottostare a regole definite.
Il motto, a questo punto, potrebbe essere “nessun futuro senza diversità”: bandite le politiche che muovono dal rischio di sicurezza e di coesione sociale, la crisi dei flussi migratori odierni diventerebbe soltanto crisi umanitaria, la cui vera urgenza sarebbe quella di preparare, senza frapporre impedimenti, l’accesso dei rifugiati ai loro diritti fondamentali.
E questa battaglia – di gran moda – inizia proprio dalla terminologia usata. Consapevoli che il termine multiculturalismo non sembra essere più alla moda, si rispolvera ormai il discorso sull’inter-culturalismo, e meglio sul trans-culturalismo, e soprattutto si vieta la diversificazione in atto tra migrante legale e illegale, proprio perché, in seguito all’auspicato modo di legiferare, il termine illegale non potrà più essere riferito ad una persona. Così come non si dirà più “migrante” (troppo frustrante), ma “rifugiato”, qualunque sia il suo statuto, il modo di arrivo o di origine, che sia da un paese in crisi o semplicemente in difficoltà economiche e civili.
Addirittura c’è chi azzarda che il termine “migrante” dovrebbe essere soppresso, ricomprendendo tutti i rifugiati nel termine di “nuovi europei”. Neanche Orwell – che in “1984” aveva immaginato una nuova lingua che potesse impedire al linguaggio corrente di definire compiutamente la realtà – avrebbe saputo inventare qualcosa di meglio.
Eugenio Preta