La festa dell’indipendenza polacca: verità o manipolazione mediatica?
Ogni anno, l’11 novembre, la Polonia celebra l’indipendenza nazionale e, per l’occasione, viene organizzata a Varsavia una grande marcia popolare. Una consuetudine che va avanti da anni ma che mai, come quest’anno, pare abbia raggiunto picchi d’affluenza talmente elevati, tanto da provocare la protesta dei circuiti giornalistici e televisivi internazionali che hanno identificato nella marcia polacca, il simbolo della destra che sta avanzando un pò dovunque in Europa, come risposta alla deriva buonista che le varie sinistre mondialiste e progressiste hanno imposto e che ha disgregato oggi il tessuto sociale degli Stati nazione.
I circuiti mediatici internazionalisti hanno fatto quindi partire una controffensiva basata su false informazioni e manipolazioni mediatiche: il prezzo che la marcia polacca ha dovuto pagare al “political correct” imperante.
Questa Marcia è stata pubblicizzata come una grande manifestazione fascista, addirittura neo-nazista, portando a supporto della riprovazione mondiale, la foto di un gruppo di giovani skinhaed che sventolava manifesti evocanti la necessità di un’Europa bianca. Evidentemente poi, i media si sono ben guardati dallo specificare che si trattava solo di uno sparuto gruppo di giovanissimi, con bandiere certamente equivoche, ma impegnato solo a mostrarsi davanti a tutte le telecamere, a fronte di una manifestazione a cui hanno partecipato 60.000 persone secondo le stime della Polizia, 120 mila secondo gli organizzatori.
I media hanno trascurato anche la condanna che il governo conservatore a Varsavia ha voluto subito rivolgere alle scritte equivoche, ed hanno poi additato al pubblico ludibrio persino lo slogan della manifestazione ispirato ad un canto cattolico del XVI secolo, “Noi vogliamo DIO” e le bandiere del Cristo crocifisso che hanno accompagnato la manifestazione. Il sistema mediatico in combutta con i poteri forti ha insistito nel condannare una presunta connivenza con gli estremismi nazionalisti di questo governo conservatore, la cui sola responsabilità resta quella di aver autorizzato la marcia per la festa nazionale e di aver voluto assicurare il suo svolgersi pacifico e in sicurezza, come del resto aveva fatto anche il governo precedente, a conduzione liberale.
Certo la parola d’ordine della marcia è stata proprio “noi vogliamo Dio”, un modo di manifestare il proprio attaccamento alla nazione e alle sue tradizioni di fronte ad un’Europa che ha perso i suoi riferimenti tradizionali e rifiuta le sue radici cristiane. Del resto, riguardo proprio all’aspetto religioso, tanto criticato dai media internazionali, tutti sono concordi nel dire che in Polonia, il patriottismo e la fede cattolica sono strettamente legati da sempre e che questo legame è stato rafforzato durante gli anni di dittatura comunista internazionalista, oltre 50 anni in cui, soltanto la Chiesa aveva saputo difendere l’identità e i valori della nazione. E proprio per il fatto di essere rimasta cattolica, la Polonia ha potuto conservare il senso di patria e di identità nazionale, cosa che oggi esaspera le elites mondialiste del mondo occidentale.
Non è stata mai un mistero la posizione Euro-critica della Polonia, un paese in cui il 57% degli abitanti, secondo un sondaggio dello scorso luglio, ha dichiarato di essere disposto ad abbandonare l’Unione europea piuttosto che essere obbligato ad accettare le sue decisioni prima fra tutte quella di accogliere ancora immigrati di religione musulmana.
In definitiva la riuscita della marcia per l’indipendenza della Polonia è stata la controprova del consenso che il governo riscuote oggi nel Paese, un successo – nonostante quanto riferito dai vari organi di informazione stranieri – che rafforza la politica governativa che vuole amministrare il proprio Paese in maniera autonoma ed indipendente, rispetto alla linea dettata da Bruxelles che vuole decidere per tutti. Mettendo a tacere critiche e manipolazioni mediatiche i polacchi hanno così dimostrato di voler innanzitutto restare polacchi, poi, se sarà il caso, diventare europei.
Eugenio Preta