In arrivo l’ondata del protezionismo, Musumeci metta in salvo i prodotti siciliani
L’elezione di Nello Musumeci alla presidenza della Regione siciliana ha riportato all’attualità un tema che il political correct imperante aveva volutamente messo da parte, che oggi deve necessariamente essere affrontato per arginare l’inarrestabile crisi economica dell’isola.
Durante la campagna elettorale molti slogan riportavano al consumo dei prodotti autoctoni, al rilancio delle imprese siciliane che oggi vivono esclusivamente di vivaismo e di piante per il commercio, alla necessità del ripristino delle produzioni e delle relative esportazioni agrumicole, inesistenti da quando il comparto siciliano è stato progressivamente abbandonato, danneggiato dalle politiche UE a favore delle produzioni dei Paesi extracomunitari, senza qualità, immesse sul mercato a costi sociali azzerati e di conseguenza estremamente competitivi.
Da tutto ciò, emerge la necessità di maggiore tutela delle nostre produzioni, per risollevarle dallo stato di crisi in cui versano, a causa della scarsa redditività del settore e della globalizzazione imperante. In definitiva una forma sobria, ma decisa di tutela, per dirla più crudamente un protezionismo, che il political correct sembra voler ignorare e che costituisce l’“exit motif” sottoscritto dalle autorità economiche mondiali nel comunicato finale del G20 – la riunione dei ministri economici e di presidenti delle banche mondiali tenutasi a Baden nella scorsa primavera – che, tra l’altro, aveva costituito la prima uscita ufficiale del neo eletto presidente Usa Donald Trump e rappresentato i primi segnali dell’impronta che la nuova amministrazione americana intendeva dare all’economia mondiale.
Nel comunicato finale del vertice, infatti, era sparita la tradizionale formula con cui i ministri delle venti economie più importanti del mondo si impegnavano a “rifiutare il protezionismo in tutte le sue forme” e tornava invece “l’impegno a rafforzare il contributo del commercio alle nostre economie”. Così Trump assumeva il ruolo del direttore d’orchestra e cambiava lo spartito dell’economia globale, in uno scenario dove lo scontro tra protezionismo e libero scambio si intrecciava inevitabilmente all’interesse nazionale.
D’altronde, quando piove è naturale cercare di ripararsi e poiché la crisi economica della Regione siciliana sembra non aver fine, sarebbe opportuno cercare un sistema per rilanciare e tutelare più le nostre produzioni (ridotte), che quelle dei nostri vicini concorrenti, che non rappresentano più un’opportunità, ma un problema.
Trump, del resto, firma e sostiene un progetto che introduce una tassa del 20% su tutti i beni e i servizi prodotti fuori confine ed in più abbassa le imposte societarie dal 35 al 20%, suscitando gli entusiasmi dell’impresa Usa, ma anche la paura degli esportatori per quella “tassa americana alla frontiera”. Una sorta di guerra fiscale che sta convincendo molti Paesi a proteggere le loro produzioni per difenderle dall’assalto dei gruppi stranieri. Da valutare che nel 2016, la media europea dell’imposizione fiscale sulle società, è passata dal 32 al 23%, con legislazioni però troppo differenti con la Bulgaria al 10%; l’Irlanda la 12,5%; la Germania al 25% (già ridotta e che sta cercando di abbassarla al 15%); e l’Italia ferma al 24%, cosa che non dovrebbe far stupire se poi le nostre fabbriche e le loro sedi sociali avviano processi di delocalizzazione. Stiamo assistendo così al ritorno silenzioso del protezionismo su scala planetaria, un ritorno forse silente, ma aggressivo e subdolo, davanti al quale gli Stati dovranno imperativamente confrontarsi. Per tutto questo, sarebbe opportuno che il Presidente della Regione siciliana Musumeci, prenda provvedimenti urgenti. Del resto, non è normale che quando le risorse diminuiscono, si cerchi sempre di tenere il proprio fieno al riparo, nella propria cascina?
Eugenio Preta