Due novembre o Halloween che sia, è paura della morte
Constatiamo oggi un paradosso inquietante rispetto a quell’immaginario collettivo che dirige e regola il nostro vivere in comune: abbiamo bandito dal sentire collettivo il concetto stesso di morte, di dipartita. Ormai la morte non abita più le nostre città, tendiamo a nascondere le persone decedute, deleghiamo le estreme incombenze alle agenzie funebri, diventate un florido business; nessuno ci chiede più di vegliare un morto, ancora meno di recitare una preghiera o le orazioni funebri. Come se la morte fosse effettivamente un fastidio e una malattia vergognosa. In verità, però, non abbiamo vergogna della morte, ne abbiamo semplicemente un’estrema paura.
D’altra parte, questa morte che ci ostiniamo a negare, che vogliamo lontana, se non assente, ritorna sempre invadente nell’attualità quotidiana, continuamente richiamata dagli schermi e dalle tivù. Certo, fa irruzione nelle nostre coscienze quando qualcuno a noi vicino scompare, ma anche quando un atto violento, oggi spesso di terrorismo, sconvolge il quotidiano della società che ha voluto mettere da parte la eventualità della morte, come in una parentesi: allora improvvisamente l’intero sistema mediatico si adopera per fare di questa morte uno spettacolo, banalizzandone, però, l’effettiva dimensione e quell’idiosincrasia che ci angoscia, ritenendo, inutilmente, di esorcizzare sotto le forme di uno spettacolo il ritorno di un momento, pur se tragico, che invece ci appartiene ed è ‘patrimonio’ di tutti.
La ragione di questo voluto allontanamento dell’idea della morte ci riviene dall’edonismo contemporaneo, dal maniacale culto del corpo, dal rifiuto della malattia e dell’ineluttabilità del tempo che passa, ma anche dalle tristi immagini che fanno da corollario obbligato ai riti della morte. Perché mai dovremmo rallegrarci di dover morire, come ci racconta la religione e ci raccomanda la fede? Rifiutando, però, di confrontarci con la morte, non riusciamo certamente a vivere meglio e non saremmo più esseri umani se non trovassimo il coraggio di guardarla in faccia. Se non siamo capaci di accettarla, se non sappiamo metterla in discussione e, peggio, se non riusciamo a trarre risposte definitive da un tema definitivo come quello che essa introduce, la fine, non vivremo meglio.
La morte ci parla, e lo fa dall’inizio dell’umanità. Ci ha parlato molto presto attraverso la religione, ma anche la storia dell’arte è spesso molto legata alla morte. La religione ha inventato la sepoltura e i suoi riti finali per contraddistinguerci dagli animali, eppure oggi rifiutiamo di dialogare e comunicare con la morte, non accettiamo più che la morte ci faccia riflettere, ci parli di cose che ci ostiniamo ad allontanare, distratti forse, sicuramente impreparati come siamo, al trascendente.
Così la società contemporanea sta andando verso una sorta di transumanismo, o addirittura un postumanismo, una filosofia oggi in grande spolvero, un ambito del pensiero creato per definire quelli del sapere, come la filosofia, l’informatica ed in particolare le biotecnologie applicate all’uomo e concepite come in grado di trasformare fisicamente e mentalmente l’uomo in qualcosa di nuovo, un essere ibrido, affinché si possano superare aspetti non desiderati, dimenticando, però, che sono insiti, ahimè, nella natura umana. Come la malattia, la sofferenza, l’invecchiamento e persino l’essere mortale.
Anche nel momento in cui la rifiutiamo, la paura della morte, la sua ineluttabilità ci riporta prepotentemente all’egoismo dell’uomo, al suo tentativo di cercare di trasformare un dolore in un bene, una paura in bellezza: in definitiva una ricercata evasione dal trapasso finale, spesso dura e dolorosa. L’ostinata ricerca di una buona morte, quella tanto discussa eutanasia che diventa, però, sradicamento: considerare, cioè, la morte solo sotto l’aspetto di un rifiuto rappresenta una forma di sradicamento ancora più assoluto perché ci toglie la nostra stessa umanità.
Oggi la religione resta la grande assente dal dibattito: per lungo tempo la sua essenza più intrinseca è stata la possibilità concessa ai fedeli di poter accedere all’immortalità non del corpo – e qui risiede la grande differenza col progressismo darwinano e transumanista – ma dell’anima: un lungo aldilà che passava proprio attraverso il momento della morte.
Oggi tutto cambia, e ci impegniamo affinchè questo transumanismo ci possa proporre un’immortalità non più fideista, religiosa, ma un’immortalità di origine tecnologica che non passi necessariamente dal momento della morte, per cercare di vivere in eterno, in maniera però limitata e imperfetta. Parliamo oggi di una vera e propria eclissi della morte nelle convinzioni di questa nostra società contemporanea. Ma come avviene per il sole e per la luna, dopo le eclissi essi ritornano e si lasciano spiegare. Al contrario, se la morte invece è definita, non riporta la vita e si impone sempre sull’essere umano.
Come potrebbe l’uomo farsene una ragione ed accettarla senza metterla in discussione? Se da un lato, poi, la morte è realtà, allora bisognerà affidarsi alla ragione e alla saggezza umanista sperando che, senza invadere le ragioni della fede, non si oltrepassino i limiti che ci sono consentiti. Rallegriamoci quindi di dover ancora soggiacere all’estrema legge della vita e perciò di non essere costretti all’immortalità, nel senso ricercato dal transumanismo. Un fanatismo ciò dell’illimitato che resta soltanto una parentesi, un momento del pensiero umano. Se poi sarà possibile o conveniente chiudere effettivamente questa parentesi dell’illimitato lo scopriremo un giorno, quando forse avremo capito che abbiamo tutti interesse a rimanere sempre e semplicemente limitati e mortali.
Eugenio Preta