Unesco, l’addomesticamento della cultura che costruisce la pace
L’insieme delle istituzioni e delle agenzie mondiali si rivela oggi una vera rete, un universo di sigle (2000 le agenzie esistenti solo nell’ambito dell’Unione europea) che certamente non servono a rendere questo mondo più funzionante. Tra di esse, l’UNESCO – acronimo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione – è stata per tanto tempo simbolo di assurdità burocratiche, di sprechi finanziari e di rivendicazioni terzomondiste. «Costruire la pace attraverso l’educazione, la scienza, la cultura e la comunicazione», è il principio ispiratore dell’agenzia, la cui sede è stata stabilita a Parigi.
L’agenzia deriva dall’antica Commissione Internazionale della Cooperazione Culturale (CICI), ma al contrario della sua antesignana, l’Unesco non è mai stato veramente un luogo di incontro culturale, ispirato dai grandi talenti letterari o intellettuali come Einstein, Maria Curie, Bela Bartok, Bergson, Thomas Mann, come era successo alla CICI a cavallo delle due guerre. Molto più politica e burocratica e meno culturale della precedente CICI, l’agenzia Unesco non è sembrata sempre trasparente ed ha registrato periodi molto criticati come quello della contestata reggenza di M’Bow, segretario generale terzomondista, filo-sovietico, apostolo di un nuovo ordine mondiale politicizzato e utopico che aveva avuto come suo fine ultimo, quello di spezzare il monopolio occidentale sul diritto d’autore e sul brevetto di proprietà intellettuale, per poter liberalizzare trasferimenti di tecnologia e legalizzare così il libero plagio. Fu M’Bow a imprimere la svolta antioccidentale all’Unesco, un musulmano senegalese, avido di titoli accademici (quarantadue lauree honoris causa), cittadino onorario di undici metropoli soggiogate alle dittature, in Africa, Asia, America latina ed Europa orientale.
Oggi nel board siedono 58 paesi membri, non tutti di cristallina democrazia e di questi, almeno una ventina, ancora oggi in difetto di legalità e preda di dittature e autocrazie. Sono queste minoranze a contrastare la cultura occidentale ritenuta arma di propaganda. Una vera e propria lotta di potere da quando i paesi emergenti, appoggiati da quelli socialisti, alla dottrina occidentale del “free flow of information”, opposero la tesi secondo cui la libera informazione maschererebbe la difesa dell’“imperialismo culturale” occidentale. Occorreva quindi autorizzare l’Unesco al filtraggio delle notizie fra quelle utili ai cittadini e quelle nocive. Un addomesticamento dell’informazione per impedire che i paesi occidentali, gestori di mezzi potenti per la divulgazione di notizie, potessero diffondere la “loro verità” nei paesi più poveri.
L’Unesco produce un’infinità di documenti che nessuno legge, tonnellate di carta che dimostrano palesemente l’impotenza dell’Unesco nel momento in cui si scontra con azioni di guerre incomprensibili o con barbarie di stupida ignoranza settaria, come successo quando si è confrontato inutilmente con il problema di salvare le statue dei Budda d’Afganistan, dei monumenti di Ninive o di Babilonia in Iraq, dei siti archeologici di Palmira in Siria.
Solo qualche giorno fa, la franco-marocchina Audrey Azoulay, ex ministro della cultura di Hollande e figlia dell’attuale consigliere del regno del Marocco, è stata nominata direttore generale, a conferma di un criterio di nomina che obbedisce ancora ad una velata connotazione politica.
Al di là però delle tematiche relative alla forma e alla sostanza delle varie agenzie, la questione del ruolo stesso dell’ONU e di una sua necessaria riforma, rimane al centro del dibattito mondiale, soprattutto se si tiene conto della svolta che si annuncia con le dichiarazioni di Trump che ripete, come George Bush, di voler combattere tutto ciò che sa di multilaterale, dal Trattato Transpacifico all’OMC, al TAFTA.
A questo punto permettiamoci solo di immaginare un mondo dove le questioni del commercio possano venire sottratte alla competenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio; i temi della moneta a quella del Fondo monetario internazionale; quelli della Finanza alla Banca Mondiale e possano finalmente ritornare sotto l’egida di una democrazia effettiva come quella costituita dall’esercizio delle sovranità peculiari degli Stati Nazione: un organismo mondiale riformato e democratico, tornato rappresentativo delle nazioni del mondo e non più delle istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods, interamente controllati da quegli interessi privati americani che li avevano generati.
Eugenio Preta