Il referendum Lombardia e Veneto e il brusio di una Sicilia non rappresentata
Il “tappo” delle rivendicazioni autonomiste, spesso di territori inventati, è esploso platealmente in Italia con il referendum tenutosi in Veneto e in Lombardia. Già la scorsa settimana la regione Emilia Romagna aveva firmato a Roma un protocollo d’intesa per l’avvio del percorso dell’Autonomia, senza fracasso e senza l’ esborso delle cifre impiegate da Milano e Venezia per l’organizzazione del referendum che vuole rivendicare l’attuazione dell’art.116 della Costituzione, vale a dire una contrattazione tra regioni e governo per l’ottenimento di maggiori competenze che avrebbe potuto senz’altro avvenire a livello istituzionale.
Sembra proprio che l’attualità catalana abbia influenzato la provincia italiana addormentata, in attesa di motivi politici da sviluppare nella prossima campagna elettorale, ed il vaso di Pandora scoperchiato da Barcellona il 1 ottobre, ha portato i suoi riflessi in Italia proprio alla luce del risultato di quel referendum.
Per il momento, probabilmente, non si tratta di una vera e propria rivendicazione di indipendenza, ma solo dell’ attuazione del famoso art. 116, anche se idealmentema è inevitabile il confronto con l’attualità catalana.
A questo punto non poteva mancare che il governatore Emiliano, sempre in cerca di protagonismo, chiedesse anche per la Puglia un percorso per l’Autonomia e, dato che ci siamo, che ci provasse pure la Campania, dove Caldoro ha presentato già un progetto per un referendum consultivo e, come folgorato sulla strada di Damasco, che ci provasse anche tutto il Mezzogiorno, dove all’autonomia ci stanno pensando anche la Basilicata e il Molise, e risalendo verso il nord, anche Lazio e Abruzzo e persino la Liguria e Piemonte dove comuni della val d’Ossola, del Verbano e del Novarese vorrebbero l’autorizzazione a traslocare nella confinante Lombardia.
Un millantato credito che aprirebbe alle richieste più disparate, come quelle del Salento che vorrebbe staccarsi dal resto della Puglia; i comuni campani, al confine con la Basilicata, che vorrebbero creare la Grande Lucania; la Ciociaria che si vorrebbe liberare da Roma; il Friuli dalla Venezia Giulia; senza dimenticare l’indipendenza del popolo fiero, i Sardi. Poi, con estrema vergogna, il silenzio della Sicilia pronta per il voto regionale che coinvolge tutti i siciliani, come al solito arruolati nelle schiere dei partiti centralisti e irregimentati nelle truppe cammellate, che hanno tradito quello statuto di autonomia del 1946 a vantaggio di piccole prerogative personali cha hanno portato al fallimento economico, politico e sociale della” Terra Impareggiabile”.
Quanta rabbia! Pensare che la Sicilia possiede dal 1946 quella Autonomia che richiedono a gran voce territori che millantano i requisiti costituzionali della lingua, territorio e popolo, che hanno dalla loro parte veri e fedeli rappresentanti, capaci di difendere e salvaguardare gli interessi del loro territorio. I referendum italici non hanno che valore consultivo; permetteranno ai presidenti di queste regioni di negoziare la gestione delle già molteplici competenze che gestiscono spesso in situazione di conflitto con lo stato centrale come sanità, istruzione, patrimonio culturale, e soprattutto di recuperare una parte del saldo fiscale, la differenza cioé tra le imposte versate localmente e il ritorno in servizi pubblici svolti sul territorio. Un tema questo, che la Sicilia si è giocata con l’accordo parlamentare sulla fiscalità concessa alle centrali italiane delle multinazionali che operano in Sicilia. Il saldo fiscale è positivo in tutte le regioni del centro e del nord e lo sarebbe maggiormente nel sud e specialmente in Sicilia, anche a dispetto di una campagna denigratoria antimeridionalista del governo centrale, che continua ad affermare che il sud riceve più di quanto effettivamente riversi allo Stato.
Oggi l’aumentata richiesta di autonomia dei territori non è una situazione da sottovalutare, ed anche se la rivendicazione di una ripartizione più equa delle risorse sembra assolutamente legittima, c’è il rischio che indebolisca uno Stato centrale già fragilizzato dalle richieste di Bruxelles che opera, discretamente ma senza tentennamenti, allo smantellamento degli Stati nazione, nonostante siano la sola difesa contro la globalizzazione sfrenata, proprio per sottrarre poteri regaliani alle differenti nazioni che la compongono e riversare nello stesso tempo più potere contrattuale, fittizio alla fine, alle regioni.
Così, le rivendicazioni autonome dei territori finiscono col fare solo il gioco di Bruxelles che avrà sicuramente più facilità ad imporre le sue direttive e la sua legislazione a limitate entità locali, già isolate da un forte contesto statale e così incapaci di difendersi in maniera composta e uniforme, piuttosto che dover negoziare duramente con solide unità politiche e Stati Nazione legalmente strutturati alla difesa del popolo e dei loro territori.
Eugenio Preta