Cantano le sirene anti-Brexit, ma Teresa May continua imperterrita
La recente decisione dell’Alta Corte britannica, che ha subordinato l’abbandono dell’Unione da parte della Gran Bretagna, l’attuazione del Brexit, alla consultazione e il parere favorevole del Parlamento, ha rilanciato le speranze degli euro-entusiasti che ancora non hanno accettato la sonora sconfitta e continuano ad arrampicarsi sugli specchi per bloccare quel voto popolare, nonostante l’importanza della chiamata alle urne (cosa che tutte le classi politiche europee cercano di evitare come il colera).
Teresa May e il suo governo conservatore hanno dichiarato di restare inflessibili, coscienti del valore storico del loro compito perché il risultato del voto Brexit è stato chiaro, legittimo e perfettamente legale, con buona pace degli entusiasti dell’Europa – in genere il popolo della City e dei quartieri chic di Kensington – e della schiera di deputati filo-europeisti che si sono sentiti defraudati dal voto della gente. Ora si mettano pure il cuore in pace e accettino serenamente il responso popolare. Del resto, il governo britannico si sta dimostrando ben agguerrito a Bruxelles e determinato a difendere le sue prerogative pre-referendum, tanto da dedicare questo periodo di vuoto normativo a tessere accordi e alleanze bilaterali laddove prima doveva obbligatoriamente operare insieme agli altri partners dell’Unione. Da Londra arriva cosi un’indubbia lezione di democrazia per i governanti europei, troppo spesso portati a disprezzare gli elettori. Spaventati gli europei delle vicende dei referendum di Maastricht e di Lisbona del 2005 – allorché il voto popolare di Stati come la Danimarca, l’Irlanda e i Paesi Bassi avevano respinto per referendum ogni tentativo di dotare l’unione europea di una Costituzione valida per tutti – i governanti europei avevano aggirato l’ostacolo, costituito dalla volontà popolare, facendo ripassare tutto dai Parlamenti nazionali, preferendo la meno complicata e più addomesticabile, specialmente in Italia, approvazione parlamentare.
I deputati euro-entusiasti, che fanno da cassa di risonanza alle streghe dell’euro-latria della comunità internazionale e dei sospetti moralisti della classe mediatica, non riusciranno ad impedire quello che i britannici hanno deciso in piena sovranità. Il processo di abbandono britannico sarà lanciato nel prossimo mese di marzo, secondo il piano stabilito da colei che fu rappresentate della circoscrizione di Maidenhead, testa di ferro alla lettera o testa di vergine, in entrambi i casi, un nome che sa di predestinazione. Determinata ed intelligente, Teresa May sembra lontana mille miglia dai suoi omologhi europei, primo fra tutti il nostro primo ministro che fa del rimescolamento delle carte in tavola la sua maggiore qualità e il suo sedicente valore aggiunto. La signora May è stata nominata per portare la Gran Bretagna fuori dalla palude unionista, che pure i britannici hanno saputo utilizzare a loro esclusivo vantaggio (leggi euro, moneta, posti e responsabilità istituzionali) e nonostante àuguri ferali e messaggi della massoneria internazionale, questo è il compito che si è prefissato.
Mentre gli inglesi hanno riconquistato la loro sovranità e lanciano una politica volontaria di re-industrializzazione, il nostro dibattito interno gravita solo e semplicemente attorno ad una riforma costituzionale che, alla fine, nonostante gli sconfessati obiettivi di risparmio e razionalizzazione, non sembra prioritaria per le esigenze del Paese, oggi in piena emergenza terremoti e sfaldamenti geologici, ma serve solo a permettere al partito di maggioranza relativa, premiato da un abnorme premio elettorale, di solidificare la presa del potere. Il gattopardo impera, o forse più semplicemente il gatto mammone, finita l’era delle magie: chi si propone per cambiare tutto, in realtà non vuole cambiare proprio nulla. Ad eccezione del buon Salvini, infatti, nessuno rimette in discussione la logica migratoria attuata oggi dai governanti illuminati d’Europa.
Una delle principali cause del declino dell’occidente resta la constatazione che le sue “elites” non hanno saputo, né voluto, ascoltare il buon senso popolare. C’è da ricordare che, collettivamente i vecchi popoli storici restano ancora i più saggi, forse perché affidatari di secoli di Storia e sembra possano conoscere in anticipo, grazie al loro istinto, cosa effettivamente possa essere utile al loro Paese. Sicuramente non una riforma costituzionale scritta illegittimamente da pochi per cambiare un impianto statale che, pur zoppicante, ha sempre permesso agli italiani di superare i gravi momenti di crisi politica e istituzionale che ha spesso attraversato.
Eugenio Preta