Questo gioco meraviglioso che è il calcio
Le partite di calcio, delizia del babbo e croce della mamma: quanto ho amato il football da bambino, ne ho ancora tanta voglia, ma oggi è così difficile! Non voglio fare l’esegesi di questo sport, nè la critica erudita del “panem e circenses”, non è questo il senso, ma mi chiedo: chi di noi può dire di non aver mai amato questo gioco meraviglioso che è il calcio?
Quale ragazzino non ha trascorso interi pomeriggi a giocare al pallone per la strada, nel cortile, o al Domenico Savio durante la ricreazione? Lo confesso, quando finiva la scuola, andavo a cercare i miei amici per improvvisare una partita nella strada davanti casa, piuttosto che iniziare a fare i compiti. Eravamo tutti Rivera o Altafini, e già sognavamo, nello spazio di una pedata, applausi e acclamazioni. Poi i campionati giovanili, i tornei estivi notturni all’oratorio di don Di Maira, con tribune sulla circonvallazione… quanti ricordi…
Il calcio, è vero, uno sport di massa, ma senza dubbio un gioco meraviglioso, accessibile a tutti. Solo una palla, quattro pietre per segnare la porta, un terreno poco frequentato, o ancora meglio una strada secondaria, e non c’era bisogno d’altro per trascorrere interi pomeriggi a giocare e… crescere soprattutto nello spirito. E poi c’era il Celeste, lo stadio, l’atmosfera dei grandi incontri, quando il Messina giocava col Milan di Amarildo e Maldini, e la Juventus di Altafini, il tifo, la spensieratezza, la voglia di assistere a partite giocate e commentate dai grandi giornali sportivi con le firme diGianni Brera o Franco Melli.
Il poeta argentino, Borges, come un vero e proprio “non sense” – lui argentino come gli dei del calcio – scriveva che “il calcio è popolare perché la stupidità umana è popolare”, identificando nelle squadre di calciatori in mutande, e nella folla di spettatori acclamanti, la massa scalmanata di beoti ignoranti.
Noi italiani, siamo più sulla linea segnata da Pier Paolo Pasolini, che del calcio, ne faceva un profondo segno distintivo, e pensava che chi non conosce il codice di questo sport, “non capisce il senso delle sue parole nè il valore dei suoi ragionamenti”. Il calcio è uno sport glorioso perchè è incerto, ingiusto, a volte sconvolgente. È il solo gioco che porta il piede alla sublimazione. Perché si può controllare con le mani la direzione del lancio di una palla, ma impossibile essere sicuri di farlo, con la stessa precisione, con i piedi.
Il giocatore più geniale può sbagliare alle volte il tiro decisivo. Quante lacrime e quante eliminazioni dopo aver sbagliato un tiro con quel piede. Il calcio è sport drammatico perché trascina dall’euforia più grande, alla delusione più cocente, in pochissimi secondi. Oppio dei popoli ma anche rivincita di popolo. Il calcio è tutto questo nello stesso tempo. I soloni potranno obiettare che si riscatta la pace sociale con pane e giochi, e non hanno, certamente, torto.
Una volta il gioco determinava gli eroi popolari, usciti elle fabbriche per diventare idoli. George Best apparteneva alla razza degli eroi popolari, rockers o skinhead, alle quali si sono identificate intere generazioni di ragazzi d’oltre manica, noi restavamo attaccati ai Rivera (che era l’abatino), a Mazzola, Gigi Meroni, a Gianni Brera che scriveva poesie e non cronache.
Oggi ,ormai siamo confrontati a giocatori intellettualmente cretini, spesso ingenui, a volte canaglie. È l’evoluzione dell’essere umano ma… è inaccettabile, senza contromosse, che il sistema ce li faccia assurgere ad eroi contemporanei, a figure di riferimento che inevitabilmente poi determinano e condizionano azioni e comportamenti sociali.
Se oggi incontro il mio meccanico o il mio panettiere acconciato come l’ultimo moicano pieno di lacci e fronzoli e cresta annessa, è perché la Tv ci trasmette attraverso la diffusione degli eroi della domenica (una volta, oggi si gioca anche nel mezzo della settimana) questo modello. Ma è così, adesso ho sempre meno voglia di guardare un match alla tivvu, ancora meno voglia di fare il tifo, anche se posso affermare di non essere pronto a impedire a mio figlio o a mio nipote di farlo.
I giocatori sono diventati merce di un sistema commerciale, icone di imprese ricchissime che promuovono il mondialismo. Il calcio è stato delocalizzato, come tutti noi lo siamo stati. Globalismo e sentenze giudiziarie (Bosman docet) ce lo hanno dissacrato e lo hanno ridotto a semplice impiego di concetto, e sottomesso alle valutazioni economiche che non permettono l’affermarsi del genio, del giocatore veramente al di sopra di tutti gli altri.
Oggi assistiamo agli europei, con queste cosiddette “fans zone” pastorizzate, che rispondono ad una società che impone il marchio e la legge dell’economia, ma anche, in epoca di terrorismi e eccessi, la terribile necessità della sorveglianza permanente. Steward negli stadi, polizia antisommossa fuori, i daspo, i tornelli, le perquisizioni, i divieti di trasferta alle schiere dei tifosi più esagitati, ce ne accorgiamo, guardando le televisioni a pagamento, riservate alle “Elites” – dal momento che non tutti se lo possono permettere – che condannano un modo di vivere che pur si faceva a margine dello stadio, e ne costituiva poi l’essenza più genuina. Lo vediamo con i milioni che l’Uefa distribuisce ai vincitori… dopo aver rimpinguato di altrettanti milioni le casse di Sky, Mediaset o TV pubbliche.
Ho amato tanto questo sport da bambino, e ancora ora ne ho tanta voglia, ma è sempre più difficile. Non più come allora.
Eugenio Preta