La Sicilia, lo Statuto e il triskele: l’antico sogno di battere moneta
Le divise complementari favoriscono le economie di prossimità e gli scambi solidali. Nell’Isola l’articolo 40 della Carta prevede una qualche forma di autonomia valutaria. E le rivendicazioni indipendentiste hanno costruito progetti suggestivi.
In molte aree del mondo e anche d’Italia i cittadini hanno creato e stanno creando monete locali complementari alla valuta ufficiale. Dai tempi del Simec di Giacinto Auriti ne è passata di acqua sotto i ponti e oggi ci sarebbero, nella Penisola, diversi altri esempi cui riferirsi. Basta pensare alla recente ‘promessa’ (è il nome della divisa) di Pisa o all’esperimento di Riace, in Calabria, che ha stupito persino il grande regista Wim Wenders.
Ancora in Calabria è nato il Kro crotonese, mentre a Napoli si era affermato lo Scec, la moneta pensata dagli amici di Beppe Grillo. E poi ci sarebbero il progetto Tau in Toscana o l’Ecoroma della Capitale e tanti altri esperimenti che riguardano aree più o meno vaste del nostro Paese.
SPAZIO ALL’ECONOMIA DI PROSSIMITÀ. Le monete complementari, che nel mondo sono qualche migliaio, hanno diverse funzioni: cementano i rapporti di fiducia in seno alle comunità che le utilizzano, favoriscono le attività e le imprese locali, contribuiscono a mantenere la ricchezza in quel dato territorio, spiazzano in qualche modo la globalizzazione e rappresentano un valido contrasto al carovita, alle speculazioni e ai profitti non reinvestiti. Si tratta di divise che danno risalto al concetto di filiera corta, di crescita sostenibile. E che, soprattutto, nascono libere dal vizio del debito e dell’interesse, osservano i ‘cospirazionisti’ più sensibili al problema del signoraggio monetario.
LA TRINACRIA CHE SOGNA DI BATTERE MONETA. Ma cosa succederebbe se l’esperimento si allargasse da una città a un’intera regione del Bel Paese? Magari una tra le più grandi e importanti? E se la nuova valuta avesse addirittura una copertura istituzionale oltre a poggiarsi sull’iniziativa solidaristica di cittadini e associazioni? In Sicilia, sull’onda di una certa spinta neo-autonomista, si è riacceso il dibattito in merito alla possibilità di porre in circolazione una moneta isolana accanto all’euro. È una specie di fiume carsico che appare, sparisce e riappare ciclicamente. Se ne è parlato in ambienti universitari e anche la stampa locale negli ultimi anni ha dedicato al tema riflessioni spesso ispirate da un appassionato (e non deteriore) campanilismo.
IL RIFERIMENTO ALLO STATUTO. In fondo, l’articolo 40 dello Statuto siciliano recita al primo comma: “Le disposizioni generali sul controllo valutario emanate dallo Stato hanno vigore anche nella Regione”. E fin qui tutto ok. Ma poi, al secondo, aggiunge: “È però istituita presso il Banco di Sicilia, finché permane il regime vincolistico sulle valute, una Camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della Regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani”.
L’UFFICIO CAMBI AL BANCO DI SICILIA. È proprio questo secondo comma ad aprire la possibilità che una banca siciliana batta in qualche modo moneta. Siccome le esportazioni isolane, le rimesse dei tanti emigranti, la vocazione turistica e il considerevole traffico navale dei porti della Trinacria hanno storicamente portato rilevanti flussi di valuta estera, il Banco di Sicilia doveva – secondo Statuto – istituire una specie di ufficio cambi che emettesse lire (oggi euro) come controvalore delle divise straniere, lire da irrorare nell’economia locale e da “destinare ai bisogni della Regione”, recita la Carta costituzionale siciliana.
“TRADITI DAI POTERI FORTI ITALIANI”. Naturalmente ciò non basterebbe ad avere piena autonomia monetaria. Purtuttavia, osservava qualche tempo fa Francesco Paolo Catania su l’Altrasicilia.org, le lire isolane, pur “avendo la stessa denominazione di quelle italiane, avrebbero potuto avere nel tempo anche un valore notevolmente differente, perché emesse sulla base di una riserva valutaria che poteva essere anche di tipo ‘pregiato’ ” e “avrebbero potuto persino essere utilizzate come moneta di scambio”. Catania parlava quindi di Statuto tradito e di “poteri forti italiani” che non avrebbero tollerato l’affrancarsi del “popolo siciliano dall’usura del signoraggio delle banche centrali cosiddette ‘nazionali’ “.
LA VECCHIA IDEA DEL TRISKELE. D’altronde le potenzialità ‘indipendentiste’ della Costituzione siciliana erano chiare già all’alba della Repubblica. Non a caso Luigi Einaudi temeva nel 1948 la nascita di uno stato autonomo nell’Isola e il palermitano Andrea Finocchiaro Aprile gli rispondeva con la speranza che la Sicilia avrebbe un giorno emesso “utilmente la nostra valuta”. Già qualche anno fa Silvano Borruso, sempre sulle pagine web dell’Altrasicilia.org, aveva coniato addirittura un nome: “Il triskele servirà da buono lavoro, esclusivo al di qua dello Stretto. Circolerà insieme all’euro, questo con funzioni di divisa ‘estera’ e quella di circolante domestico. Una imposta del 2 per cento trimestrale (8 per cento annuale) sui buoni da 1, 5 e 10 triskele ne assicurerà la circolazione rapida, cioè la capacità di cambiar di mano 400-500 volte in un anno, così muovendo beni e servizi per un valore 400-500 volte quello nominale dei buoni”.
I BENEFICI AUSPICATI. Il nome della valuta, triskele, deriva dalla figura mitologica dalla testa di donna (forse Medusa) con tre gambe, simbolo della Trinacria. Borruso aggiungeva: “Con il triskele qui proposto la Sicilia potrà non solo occupare i suoi ‘schiffarati’ (disoccupati), ma anche far rientrare i suoi figli emigrati, nonché intraprendere opere” tra le quali “un tunnel galleggiante sommerso Messina-Villa” al posto del famigerato ponte sullo Stretto e “un centro di ricerca nel vecchio stabilimento Fiat di Termini”, più tanti altri interventi infrastrutturali.
“NON È EQUO CHE CHI HA PIÙ MONETA LA TENGA FERMA”. D’altronde, lasciando lo specifico siciliano, le parole più utili a capire il problema che sottostà al fenomeno delle valute locali, arrivano dall’architetto tedesco Margrit Kennedy, autrice di un caposaldo come ‘Monete complementari’: “Se da un lato la moneta agevola lo scambio di beni e servizi, dall’altro però può anche ostacolarlo. Questo accade quando rimane nelle mani di coloro che ne hanno in quantità maggiore rispetto al bisogno. E più di quanto in realtà necessiti loro. Si crea così una sorta di prelievo forzato che costringe chi ha di meno rispetto al necessario a pagare una tassa a chi ne ha di più. Questo non è affatto un equo contratto sociale”.
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