150 anni di unità d’Italia o di ”dominazione” italiana? Riflessioni a margine di una scorribanda nella storia


In questa ricorrenza – com’era ovvio – c’è stato un bel dibattito sul significato da dare e sull’attualità dei fatti che portarono 150 anni or sono a fare da tanti stati italiani preunitari un solo stato. E’ stata anche occasione per strumentalizzazioni politiche di vario genere, ma si poteva evitare? Certo, fa una qualche impressione notare come dopo tutto questo tempo il tema non sia solo oggetto di “festeggiamenti” ma anche (“ancora?” verrebbe da dire) di remore, rimpianti, polemiche. Insomma, questa scadenza una cosa l’ha senza dubbio certificata: l’indicazione di Massimo D’Azeglio non è stata ancora seguita e certamente conseguita. C’è certamente una realtà politica chiamata Italia, ma ancora (“ancora?”) si devono “fare gli italiani”. Sarà mai possibile farli da ora in poi? Sembra come un matrimonio un po’ combinato in cui l’amore “poi viene”.

Ma se dopo 15 anni di matrimonio ancora questo amore non c’è, o quel poco che c’era è in crisi, che si fa? Due sono le strade: o si va in terapia di coppia o si “scoppia”. E parimenti due sono le strade che oggi si aprono all’Italia: riscoprire, come vogliono alcuni, le ragioni dello stare insieme (“Se stiamo insieme ci sarà un perché” diceva una canzone di Cocciante di qualche anno fa) o separarsi in modo pacifico e consensuale, come più o meno larvatamente indicano altri. Non voglio dire cosa sia meglio, anche perché non ne sono del tutto sicuro neanch’io; solo mi permetto di segnalare due altri comportamenti quanto mai scorretti.

Uno è quello di “fare finta di niente”, dire che c’è in giro tanto entusiasmo come se fossimo nel 1961, quanto certamente tirava un’altra aria, e far finta di non accorgersi che c’è chi “rema contro” mentre dall’altra parte c’è pure chi festeggia, ma con un’ostentazione tale da denunciare proprio ciò che vorrebbe negare: una grande insicurezza sulle prospettive dello “stare insieme”. L’altro è quello del “doppio gioco”: stare nello Stato che si disprezza, trarne il massimo lucro, ma poi “usarlo” per egoismi regionali e gettarlo nel cesso quando si tratta di celebrarlo. Eh no! Chi porta a casa con le finanziarie centinaia di miliardi, chi deve tutto il proprio benessere al sacrificio di altri “fratelli d’Italia” deve scattare sull’attenti con il Tricolore in pugno e cantare l’Inno di Mameli con la mano sul cuore, altro che uscire e prendersi un caffè al bar… Ma lasciamo perdere questa cronaca spicciola che forse domani dimenticheremo e cerchiamo di riprendere le fila del discorso. Cos’è esattamente che ricorre in questo 17 marzo 2011? Cominciamo con il dire che il 17 marzo 1861 è una data puramente simbolica.

La cosiddetta “Unità d’Italia” si era avviata prima e si sarebbe conclusa dopo. Da quel giorno, però, tutte le cancellerie europee e mondiali dovettero prendere atto che era nata una nuova realtà geopolitica, sconosciuta da secoli con quell’estensione, se non proprio con quel nome: l’Italia. E sebbene fosse uno stato fragile e indebitato, essendo la politica mondiale dei tempi ancora concentrata nell’Europa, l’Italia fu considerata da subito una “grande potenza”, ruolo che avrebbe mantenuto poi, forse un po’ abusivamente, sino alla disfatta del 1943-45. In alcune regioni, però, l’unità era avvenuta prima. Gli stati sardi, ad esempio, dopo alcuni interventi legislativi unificanti che risalivano alla monarchia di Carlo Felice, si erano già fusi nel 1847, dissolvendo nel nuovo Regno di Sardegna, i vecchi stati dell’omonimo regno (ma quello “veramente” di Sardegna, cioè insulare) del Ducato del Genovesato (l’antica Repubblica di Genova), del Principato di Piemonte, del Ducato di Savoia e della Contea di Nizza. Questo nuovo stato era in realtà un’annessione al Piemonte degli altri stati sabaudi, con il mantenimento del titolo sardo in onore al fatto che la corona isolana era quella di più alto rango. In termini aziendalistici moderni si sarebbe chiamata una “fusione inversa” (cioè quando una società controllata formalmente incorpora la controllante, ma nella sostanza succede esattamente il contrario).

Tanto è vero che in diplomazia internazionale lo Stato continuò ad essere chiamato il “Piemonte” fino al 1861. In questa infelice “espansione” furono salvate le forme: Cagliari rimase capitale nominale (ma credo che Vittorio Emanuele II ci sia andato solo una volta) e il Parlamento semifeudale di Sardegna (lo stato sardo era l’unico a disporre di un organismo assembleare di “antico regime” non troppo diverso da quello siciliano) approvò la propria dissoluzione e quindi la propria confluenza in quel parlamento subalpino che di lì a poco si sarebbe convocato a Torino secondo lo Statuto Albertino (1848). Già in questa prima “unione” si sperimentò il modello dualistico Nord-Sud che poi si sarebbe esportato al territorio delle Due Sicilie.

Gli stati del Nord si integravano veramente (simbolica fu la fusione delle Banche di Genova e di Torino in quella Banca Nazionale che poi avrebbeo contribuito a “fare” l’unità d’Italia) mentre la Sardegna era solo un possedimento d’oltremare in condizioni strutturali di minorità, governato per mezzo dell’accordo con la classe dirigente locale. Negli anni cruciali (1859-60) non ci fu nessuna “unione” in senso tecnico, paragonabile a quella tedesca del 1870 o a quella americana del 1783, ma solo una serie progressiva di annessioni al summenzionato Piemonte (nominalmente “Sardegna”). Continuando la metafora (ma fino a un certo punto) aziendale che sopra abbiamo evocato è come se una società comprasse progressivamente altre società e poi, dopo averle tutte acquisite, le incorporasse a sé con semplice cambio della denominazione sociale. Chi ha un po’ di pratica con la terminologia aziendale sa che la fusione per unione è cosa diversa dalla fusione per incorporazione: nella prima da tante aziende se ne crea una nuova, nella seconda un’azienda “inghiotte”, per così dire, le restanti.

E che si sia trattato di incorporazione e non di unione è evidenziato da alcuni tratti incontrovertibili: la legge fondamentale che era stata posta alla base del Piemonte/Sardegna all’indomani della sua costituzione, lo Statuto Albertino, restò a regolare la vita italiana addirittura sino al 1946, quando fu travolto dalla Repubblica; la legislazione piemontese mantenne il suo vigore su tutto il territorio nazionale sinché non abrogata dal legge successiva, mentre gli ordinamenti giuridici ed amministrativi degli altri stati preunitari furono semplicemente troncati; ma più di tutti fu proprio la proclamazione a re d’Italia di Vittorio Emanuele II che, restando appunto II e non I, testimoniò della sostanziale continuità con la precedente monarchia piemontese. Quindi fu conquista/annessione e non unione.

Questa avvenne, come è noto, in più fasi: la Lombardia, direttamente annessa al Piemonte nel 1859, i ducati emiliani, le legazioni romagnole e il Granducato di Toscana, che si diedero a Vittorio Emanuele II come “re eletto”, cioè capo provvisorio di quegli stati in attesa della fusione, nei primi del 1860, e, con formula analoga, con le amministrazioni della Sicilia, delle Province Napoletane e dell’Umbria/Marche nei mesi successivi. Alla fine del 1860, quindi, e soprattutto con la c.d. Spedizione dei Mille, la “scalata” di questi stati era già avvenuta. Il vero anniversario sarebbe dunque l’anno scorso e non ora. Il punto è che, tra amministrazioni provvisorie varie, sino al 16 marzo 1861 esistevano formalmente tanti stati uniti solo dalla persona del re, nella prospettiva dell’Italia e non all’interno dell’Italia stessa. Il 17 marzo, quindi, si celebrò quello che nella nostra metafora societaria si potrebbe chiamare l’atto di fusione, un po’ come l’Union Jack britannico del 1707, ma con minore rispetto per la dignità statuale delle formazioni politiche che erano state incorporate. Per altre regioni, infine, l’unione sarebbe arrivata più tardi (le “Venezie” e Roma), sarebbe arrivata più tardi e poi persa (l’Istria) o non sarebbe mai arrivata (la Svizzera italiana, San Marino,…). Ma questo non importa più di tanto. L’Italia come realtà geopolitica a quel punto già esisteva e si trattava soltanto di mutazioni di confine. Nasceva o rinasceva dunque l’Italia in quel 17 marzo 1861? Come si è visto si tratta solo di una data convenzionale (forse per questo non è mai stata festa nazionale) e poi sostanzialmente sanciva solo la conquista dell’Italia da parte del Piemonte. Ma se nella forma fu una “conquista” del Piemonte, che infatti non mancò di lasciare risentimenti regionali in quegli stati che vantavano maggiore tradizione (la Toscana, la Lombardia innanzi tutto), nella sostanza l’integrazione sociale ed economica nel Centro-Nord ebbe luogo. Anzi, già c’era prima. L’Italia, in questo senso si era soltanto “riunita” politicamente, ma non era mai stata divisa. Un esempio fra mille: gli stati del centro-nord adottavano tutti la lira, sì lire diverse da stato a stato, ma pur sempre lire, e sistemi metrici che erano varianti “dialettali” gli uni degli altri. L’unità pone fine a questa frammentazione che aveva avuto inizio in epoca comunale e fa sentire subito i propri vantaggi. Superata Roma, però, che comunque è citta cerniera, diverso è il discorso per il Sud e per le Isole. Queste nella sostanza furono da subito terre conquistate, colonie interne. Nessuno può negare il persistere di modelli sociali arcaici (ma non andava molto meglio in gran parte del Nord) o della logorante e secolare contesa tra Napoletano e Sicilia, ma nel complesso il Regno delle Due Sicilie era un paese normale, dotato di potenzialità di tutto rispetto. E invece l’Unità per questo Sud rappresentò semplicemente una catastrofe, una sciagurata invasione barbarica che travolse tutto e tutti. Il Sud conquistato non si sarebbe ripreso più da questa conquista perché lo Stato italiano era nato nel segno di questo sfruttamento interno e lo avrebbe sempre mantenuto, più o meno camuffato o edulcorato, in tutte le sue stagioni politiche come un suo fatto costitutivo. Dobbiamo ancora dimostrarlo con dati e documenti? Dobbiamo considerarci “piagnoni” per il solo fatto che sappiamo da dove viene il male che ci circonda? Una prima conclusione la nostra riflessione l’ha trovata. La data simboleggia i 150 anni di Italia unita, ma anche i 150 anni di Questione meridionale e, senza troppi giri di parole, anche 150 anni di mafia. Lo sappiamo che stiamo festeggiando anche questo con i drappi e le coccarde tricolori? Poi, però, c’è un altro elemento di questi 150 anni e questo riguarda peculiarmente la Sicilia. Ai tempi pare ci fosse un grande entusiasmo dietro questa proclamazione. Era visto come la “ricucitura” di una ferita millenaria. L’Italia, unita solo ai tempi dell’Antica Roma e per poche stagioni immediatamente successive, si era divisa in due già nel lontano VI secolo dopo Cristo (la Longobardia dei barbari e la Romània dei bizantini) per poi frammentarsi sempre più. E’ vero che dalla Longobardia era nata una specie di monarchia “italica”, ma dai confini sempre più stretti e dall’autorità sempre più blanda. Già al venire dei Franchi il Regno dei Longobardi prese a chiamarsi d’Italia, ma aveva perso anche il Sud del Ducato di Benevento. Il Regno italico, in balia di feudatari sempre più rissosi, riuscì a mantenere sin verso il 1000 a Pavia una sua cancelleria e la corona ferrea, poi, con l’aiuto della Chiesa (lotta per le investiture), con l’autonomia delle repubbliche marinare, con l’autonomia dei Comuni, esso rimase un regno poco più che teorico. Ci fu anche un tempo in cui Re d’Italia (con quel po’ di autorità che rimaneva) era il nostro Federico II e l’Italia, per così dire, dipendeva dalla Sicilia (sic transit gloria mundi). Poi tale regno divenne puramente nominale. Venezia, che non ne aveva mai fatto parte, gli strappò tutto il Veneto e mezza Lombardia, Carlo V nel 1530 se ne fece coronare a Bologna, ma non per questo ne rinverdì l’autorità. Unica traccia era che nessuno dei principi dell’Italia settentrionale poteva dirsi “re”, in quanto teoricamente gli staterelli erano tutti “italiani” e quindi stati feudali di un teorico “Regno d’Italia” che mai venne dissolto. L’unico che riuscì a riesumarlo fu Napoleone, prima con la “Repubblica italiana” e poi con il “Regno d’Italia” di cui cinse proprio la corona ferrea. Paradossalmente quel dimenticato Regno d’Italia, originato come s’è visto dai longobardi, sarebbe sopravvissuto trasformandosi nel Regno Lombardo-Veneto, e infine solo Veneto, sino al 1866. Ma la storiografia risorgimentale non ha mai considerato italiano quel regno, perché? I tricolori napoleonici non sono nel nostro Pantheon, perché? Perché quel Regno era solo dell’Italia centro-settentrionale, cioè della Padania diremmo oggi. Un Regno d’Italia che arriva alle Marche che Italia è? Rivendicarne l’eredità significherebbe ridimensionare l’epopea risorgimentale e dichiarare che a Sud del Tronto comincia una pericolosa “terra di nessuno”, geograficamente italiana ma politicamente….chissà. Ma comunque, bene o male, nel 1860/61 l’Italia intera, compresa la meridionale, ricuce lo strappo dell’invasione longobarda, ritorna una come ai tempi di Augusto; ecco la novità. Ed ecco anche la ragione per la quale molti meridionali, pur non disconoscendo ciò che abbiamo subito, non rinnegano oggi la validità del processo unitario. Ma se per l’Italia fu una ri-unione per la Sicilia fu un’unione per la prima volta nella sua storia! Il resto d’Italia era sempre stato Italia e da più di mille anni disunito. Per la Sicilia è stato diverso: è stato come un battesimo, fu allora che divenne italiana. Lo Stivale è così uscito dai suoi confini storici per raggiungere un’estensione che nemmeno gli imperatori romani avevano mai pensato. Le cartine settecentesche dell’Italia tagliano la Sicilia come paese alieno e ai tempi dei Romani la Sicilia era provincia a sé. Certo la Sicilia si era lentamente italianizzata, nella lingua letteraria ed ufficiale, a partire dal ‘500, ma di per sé la lingua non giustificava l’appartenenza alla nazionalità italiana. Ancora nel 1848 la Sicilia si pensava come paese indipendente “di lingua italiana”. Ancora nel 1860 non era chiaro quale dovesse essere il rapporto istituzionale tra la Sicilia e il nuovo stato. La Sicilia non si riunì all’Italia; essa divenne italiana. Noi oggi, a differenza degli altri italiani, “festeggiamo” proprio questo. Le nostre vie e piazze avrebbero tutte cambiato repentinamente toponomastica.

La nostra storia secolare, che era stata di Nazione, o veniva negata e relegata alla processione delle “dominazioni”, o artatamente negata e ridotta a identità “regionale” (forzando evidentemente la realtà che era di storia nazionale). La nostra Union Jack segna così una svolta unica nella nostra storia, non una riunificazione, sia ben chiaro. La realtà, però, ci parla anche di un’identità siciliana schizofrenica da allora ad oggi: unitaristi ossessionati (per dirla con Gramsci), più italiani di tutti, ma anche irrimediabilmente siciliani, come sempre, per sempre, in un rapporto tra Sicilia e Italia che oggi è ipocrita ridurre a questione regionale. Oltre alle sventure comuni al Sud, che non richiamiamo per sola brevità, la Sicilia presenta da subito una peculiare Questione Siciliana, perennemente irrisolta, un po’ economica, un po’ sociale, soprattutto politica. Continue rivolte dopo l’Unità sfociate in una ribellione separatista nel 1866. L’amministrazione militare sino al 1895. L’esplodere subito dopo del Regionismo. L’indifferenza ostile verso il fascismo e subito dopo il grande separatismo del Dopoguerra. La “riparazione” data dalla Carta autonomistica del 1946 e il suo successivo tradimento. E non mi spingo all’attualità ancora solo per brevità. Ma diciamo solo questo: dov’è che esplode prima che altrove il meridionalismo politico oggi? In Sicilia, naturalmente. Questi 150 anni hanno anche visto ovviamente crescere la Sicilia, con lo Stato italiano e molto spesso nonostante lo Stato italiano. Generazioni di siciliani sono cresciute in un clima di assimilazione all’Italia che non tollera diversità considerandole eversive. Ma per lo più lo Stato italiano ha (almeno sinora) complessivamente fallito nel processo di integrazione della Sicilia nell’Italia. La Sicilia resta “altro”, “alienata” tanto dall’Italia quanto da una impronunciabile identità propria, sospesa in mezzo ad un mare di problemi che la mancanza di uno stato, proprio o altrui che sia, non fa che incancrenire. Dobbiamo festeggiare oggi per tutto ciò? Non me la sento, non me la sento proprio.

Dobbiamo dileggiare il Tricolore e chi ci crede? Nemmeno. Si può rispettare la legalità dello Stato italiano e le sue ricorrenze senza ostentare entusiasmi fuori luogo. E’ un fatto che in molti sondaggi una forte minoranza in Sicilia sia ormai lontana dall’unitarismo ossessionato di cui parlava Gramsci. Oggi si deve guardare alla sostanza. I siciliani che andarono dietro a Garibaldi, quando non erano cricche “interessate”, sognavano la libertà e si ricredettero in fretta (anche Garibaldi si ricredette, a modo suo). E’ libera oggi la Sicilia? Libera dal bisogno, dalla corruzione, dallo sfruttamento esterno? O è ancora una colonia? Quella italiana è una cittadinanza che segue alle “dominazioni” o è una “dominazione” che segue ad una cittadinanza? Non lo so. Lasciatemi sognare una Sicilia fiera e libera, legata alla propria identità ma senza queste catene. Che ci sia ancora l’Italia o no a farle compagnia a me pare un dettaglio.

Massimo Costa