Garibaldi e il saccheggio del Regio Banco di Sicilia
Il 27 maggio del 1860 data l’inizio della scientifica spoliazione e della rapina delle ricchezze e dei beni delle genti del Sud e dei siciliani. Con l’entrata di Garibaldi a Palermo ha infatti inizio il saccheggio della tesoreria del Regio Banco di Sicilia. Del resto che cosa ci si poteva aspettare da un predone che in sud america era uso, grazie alle lettere di “ corsa” assaltare e depredare, per far bottino, le navi imperiali brasiliane e spagnole.
Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima(nel 1859) i dirigenti del banco siciliano avevano commissionato ad alcune imprese edili il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro.
Ad alleggerirla in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi rapinando il contenuto della cassaforte e depredando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi.
Il tutto avvenne in occasione dell’incredibile e inspiegabile ingresso di Garibaldi in una Palermo presidiata da 24000 borboni e dopo la farsa della battaglia di Calatafimi, dove grazie al tradimento e alla corruzione (il prezzo del tradimento ammontò allora a 14000 ducati) del generale Landi, 3000 borboni batterono in ritirata di fronte a circa 1000 garibaldini male in arnese e nella quasi totalità inesperti all’uso delle armi. In quell’occasione, proprio quando i borboni in numero nettamente superiore e attestati in una posizione più che favorevole, si accingevano a sconfiggere facilmente i garibaldini, il generale Landi, che già aveva intascato una fede di credito di 14000 ducati, un somma enorme per quei tempi equivalenti a 430 milioni di vecchie lire e 224mile euro dei nostri giorni, diede ordine al proprio trombettiere, di suonare il segnale della ritirata, lasciando sbigottiti ed esterrefatti gli stessi garibaldini che, a quel punto, non credevano ai propri occhi. Come non credevano ai propri occhi gli stessi soldati borbonici che con rabbia e sdegno, loro malgrado, furono costretti a ubbidire.
Scriverà poi Cesare Abba nelle suo libro “ Da Quarto al Volturno” : “E quando pensavamo di avere perso improvvisamente ci accorgemmo di avere vinto e meravigliati dal campo stemmo a guardare la lunga colonna ritirarsi a Calatafimi”. E ancora, uno dei Mille, Francesco Grandi nel suo diario così riportava:” Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, da come si erano messe le cose, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla nostra tromba ma da quella borbonica.” Più chiaro di così . Tanto potè a Calatafimi il tradimento e la corruzione del generale Landi come possiamo rilevare da quanto riportato nei loro diari degli stessi garibaldini increduli testimoni dell’ “inglorioso” evento.
Ma “l’intelligenza con il nemico” di Landi nella battaglia di Calatafimi non fu certo pari a quella del generale Lanza a Palermo. Questi lo superò di gran lunga, nel modo come all’alba del 27 maggio agevolò l’entrata di Garibaldi a Palermo da porta Termini, lasciandola deliberatamente sguarnita e non prendendo alcun provvedimento malgrado alcuni suoi ufficiali lo sollecitassero a fare uscire le truppe (che contavano ben 24000 uomini) acquartierate al Palazzo Reale per contrastare i circa 3000 garibaldini (ai Mille si erano nel frattempo aggiunte alcune bande di picciotti molte delle quali condotte da noti mafiosi dell’epoca) che si accingevano a entrare in città. Lanza lasciò deliberatamente il grosso delle truppe inoperose e poca resistenza poterono fare le 260 reclute che erano rimaste a presidio di porta Termini da cui, travolta questa scarsa resistenza, i garibaldini dilagarono in città rimanendone nei giorni successivi assoluti padroni poiché Lanza si ostinava a tenere inspiegabilmente (era evidente il tradimento e la connivenza con il nemico) le sue truppe acquartierate e inoperose nei pressi del Palazzo Reale.
Nei giorni seguenti, fedele a un copione già stabilito e concordato, chiede per il giorno 29 maggio all’ammiraglio inglese Mundy, che si trovava con la sua nave ammiraglia Hannibal nella rada di Palermo la mediazione per la firma di un armistizio che verrà accordato e che si protrarrà sino al 3 giugno. Nelle more dell’armistizio, per accordare ulteriori 3 giorni di proroga Garibaldi, pretenderà la consegna di tutto il denaro del Regio Banco delle Due Sicilie. E come è facilmente arguibile, da copione già scritto, il Lanza acconsentirà facendo per questo nascere il legittimo sospetto, alla luce degli avvenimenti di quei giorni caratterizzati da tradimenti e corruzioni, che, nella divisione della torta del saccheggio del Banco, una fetta non indifferente andasse alla fine nelle capienti tasche del generale borbonico. Del resto, di qualche giorno a Calatafimi sulla falsariga della corruzione e del tradimento, lo aveva preceduto per cifre più modeste il generale Landi. La cronaca di quei giorni e della consegna di quanto contenuto e saccheggiato dal “Banco delle Due Sicile” e bene e dettagliatamente riportata nel libro di Lucio Zinna “il Caso Nievo” (che come si sa fu il viceintendente di finanza della spedizione dei Mille). Zinna fa una puntuale e interessante ricostruzione del caso Nievo e della sua misteriosa morte avvenuta nel marzo del 1861, nell’affondamento del Piroscafo Ercule a punta Campanella nei pressi di Napoli mentre stava portando a Torino la rendicontazione della gestione amministrativa e finanziaria dell’impresa dei Mille comprendente anche, si presume, la vicenda riguardante la “consegna” del denaro del Banco delle Due Sicile preteso da Garibaldi all’atto dell’armistizio.
Ma sfortunatamente tutto andò a fondo nel naufragio dell’Ercole e ogni notizia al riguardo si perse con la misteriosa morte di Nievo. Lucio Zinna nel suo interessante libro, così puntigliosamente e minuziosamente, ricostruisce la cronaca del ” prelievo” fatto da Garibaldi a danno dei palermitani e dei siciliani al Banco delle Due Sicilie: “ Il primo giugno Francesco Crispi e Domenico Peranni (ultimo tesoriere di nomina borbonica, ben presto e per breve tempo Ministro delle Finanze della dittatura garibaldina) ricevettero nel palazzo delle finanze, dallo stesso generale Lanza e in presenza di funzionari, la somme che vi erano custodite. Complessivamente 5 milioni 444 ducati e 30 grani. E poiché nella monetazione siciliana – spiega Zinna nella sua puntuale ricostruzione – un ducato,equivalente a dieci tarì, corrispondeva al cambio in lire italiane di 4,20, la somma complessiva ammontava a 22 milioni 864mila 801 ducati e 26 centesimi pari a 166 miliardi 962 milioni738 mila 984 lire che tradotti in euro fa 86 milioni 229 058 e 44 centesimi. Un importo complessivo costituito dai depositi dei privati tranne 112 mila 286 ducati di pertinenza erariale. Una somma enorme equivalente a quasi metà delle spese sostenute nella guerra franco piemontese del 1859 contro l’Austria. E fu così che privati cittadini palermitani e siciliani si videro così spogliare di tutti i loro risparmi ai quali Garibaldi rilasciò una improbabile ricevuta con su scritto “ Per spese di guerra” con l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il prestito. Il foglietto contenente la ricevuta restò negli archivi a futura memoria. Il dovuto non fu mai restituito ma distribuito ai garibaldini, alla copertura delle spese delle guerre sabaude e al ripianamento del debito pubblico dello stato più indebitato d’Europa che era allora il Piemonte per le enormi spese di guerra sostenute. I siciliani e i palermitani aspettano ancora di essere risarciti di queste rapine anche per questo la magica parola Risorgimento vorrà ancora oggi, per loro significare, con i dovuti interessi, Risarcimento.
Di questo prelievo indebito e forzato è difficile, trattandosi di un vero e proprio atto di saccheggio e di pirateria dei depositi bancari dei siciliani, trovarne traccia nelle cronache e nei libri del tempo. Ne fa cenno nel suo libro-diario “La Flotta inglese e i mille” l’ammiraglio sir Rodney Mundy, inviato, con la sua flotta, dal governo del suo paese, a scortare e proteggere Garibaldi, che così debitamente riporta l’avvenimento : 1° giugno – Riferendosi alle clausole della convenzione firmata dal generale Lanza e dal sig. Crispi, segretario di stato del governo provvisorio, la Finanza e la Zecca reale passava agli insorti. Nelle casse furono trovate un milione e duecentomila sterline in denaro contante” ( Corrispondente, in sterline, all’ingente somma così bene e minuziosamente descritta da Lucio Zinna).
Per non fare torto ai siciliani e ai palermitani, appena giunto a Napoli, Garibaldi non si fece parimenti scrupolo di depredare e usare lo stesso trattamento e gli stessi metodi di rapina alla capitale del Regno delle Due Sicilie. Il palazzo reale fu spogliato e depredato di tutto e così come avvenne a Palermo fu saccheggiato l’oro della Tesoreria dello Stato e tutti i depositi del Banco di Napoli requisiti e dichiarati beni nazionali . Con un decreto del 23 ottobre, ben 6 milioni di ducati equivalenti a 118 miliardi delle vecchie lire e a 90 milioni degli attuali euro provenienti da questi saccheggi furono poi divisi tra gli occupanti e i loro sodali. Furono pure requisiti il patrimonio e i beni personali di Francesco II di cui indebitamente si impossessò Vittorio Emanuele II . Più avanti il re di Sardegna si offrirà di restituirli al legittimo proprietario se questi avesse acconsentito a rinunciare al suo diritto al trono delle Due Sicilie.
“La dignità non si compra” fu la lapidaria risposta del deposto ultimo re della dinastia borbonica in Italia, definita “la negazione di Dio”, al re “galantuomo”che lo aveva depredato di tutto. E dire che di recente il ballerino cantante principe Emanuele Filiberto di Savoia e suo padre Vittorio Emanuele, degni discendenti del re “galantuomo”, con la regale faccia tosta che li contraddistingue, rientrati dall’esilio pretendevano un cospicuo risarcimento per svariati milioni di euro per i danni subiti, a loro dire, dallo stato italiano. Avrebbero fatto bene i due ridicoli e patetici rampolli discendenti di casa Savoia a rileggere la Storia di quei tempi e rivisitare i massacri le rapine, le spoliazioni e i saccheggi perpetrati indebitamente dai loro avi a danno delle popolazioni meridionali e per questo, esse e non i Savoia, legittimamente destinatarie di risarcimenti mai bastevoli a compensare gli incommensurabili e inestimabili danni subiti.
Ma torniamo al generale Ferdinando Lanza. Dopo avere consentito a Garibaldi di depredare, nelle more dell’armistizio del 30 maggio, il Banco di Sicilia in cui si presume abbia avuto la sua parte di “bottino”, giusto il tempo di consentire saccheggio, firmerà appena sette giorni dopo (il 6 giugno) una disonorevole e umiliante capitolazione . Ben 30 mila borboni bene armati e in pieno assetto di combattimento (ai 24000 uomini accampati, che Lanza teneva inoperosi nel piano di palazzo reale, se ne erano nel frattempo aggiunti 6000 agli ordini di Bosco e Won Mekel rientrati a Palermo dopo il vano inseguimento alla colonna del garibaldino Orsini) si arrenderanno a poco più di 3000 tra picciotti e garibaldini male in arnese e scarsamente armati.
Una incredibile e assurda capitolazione che non trova alcuna elementare spiegazione in nessun manuale di strategia militare, se non giustificata dalla corruzione e dal tradimento dei generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Scrive, a proposito di questa inconcepibile resa, ancora Cesare Abba: “Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare un sogno, ma non a loro” Era un sogno. I garibaldini ancora una volta, come a Calatami, non credevano ai propri occhi: avevano guadagnato una battaglia che, considerata l’enorme disparità in campo a loro sfavorevole mai pensavano di poter vincere. Un sogno per i garibaldini, un incubo per i soldati duosiciliani cui li aveva precipitati il tradimento e la corruzione dei propri generali.
Rientrato a Napoli, Ferdinando Lanza finirà davanti alla Corte Marziale per alto tradimento. Non ci sarà il tempo di condannarlo per il precipitare degli eventi dovuti alla fuga da Napoli di Francesco II. Il generale Lanza potrà così godersi il frutto delle proprie malefatte. Della sua “intelligenza con il nemico” negli avvenimenti di Palermo del giugno del 60 ne è riprova quanto avvenne poco meno di tre mesi dopo a Napoli. Il 7 settembre Lanza si recherà a palazzo d’Angri a rendere omaggio a Garibaldi e a complimentarsi per le sue “ vittorie” e ricordargli che a queste vittorie lui aveva dato il suo determinante e peculiare contributo.
Altrettanto bene non finirà invece al generale Landi. Vi ricordate delle fede di credito di 14mila ducati quale prezzo della sua arrendevolezza a Calatafimi?
Ebbene nel marzo del 1861 quando si presenterà presso la sede del banco di Napoli per esigere il prezzo del”malaffare”, dai funzionari del banco si sentirà dire che quella fede di credito era taroccata.
Il suo valore non era di 14mila ducati ma bensì di 14 ducati a cui erano stati aggiunti truffaldinamente tre zeri. Ai dirigenti, che gli aprivano sconsolatamente le braccia, confesserà con rabbia di averla avuta personalmente da Garibaldi.
Corrotto e truffato dunque, Landi, precedentemente degradato e posto in pensione, morirà per il dispiacere poco tempo dopo.
Saccheggi, spoliazioni, tradimenti corruzioni, truffe da Garibaldi ai Savoia questi gli ingredienti che caratterizzarono la conquista del Sud e portarono a una mal metabolizzata “Unità d’Italia”. Oggi, a distanza di 150 anni da quegli avvenimenti, nulla è cambiato.
Con queste premesse del resto cos’altro potevano pretendere gli italiani e le popolazioni meridionali che di questa mala Unità ne pagarono e ne continuano a pagare le drammatiche e costose conseguenze.
Ignazio Coppola