Nei margini dell’estate consueta
Soffia alito di profonda estate sui tuoi fianchi incrostati dai granelli di sabbia, nera come la fucina del Vulcano, notte infinita dei tempi, da dove sprizzano verso il cielo alto lapilli e incadescenze luccicanti di fuochi intimi.
Scoppia arsa calura tra le sbalze di smunto Simeto, nelle bruciate distese di stoppie nebroidee, nello scarno canneto che taglia l’orizzonte che profila le pietre di Pantalica, le onde di perduta Mozia, i sassi senza tempo del Tindari di memoria, nel cemento sconvolgente luoghi e miti, sulle tolde del ferribot luccicanti per amari colori sul cangiante slargo che schiude l’Isola al mondo, già limite alle passioni e alle certezze.
Nella magia infinita dei tuoi ritorni, che si ripetono sempre uguali sul leggio di un tempo che passa indicibile tra spire di affanni e solitarie pause di orgogli addormentati nel rombo di un motore eccessivo.
Ecco, ti raccontano i Peloritani, nelle cime di abeti spelacchiati dal ricordo e annullati dalla mano dell’uomo che può solo sconvolgere la memoria ma distruggere così la terra, madre mirabile, che ancora ripete sempre puntuale il cambiare del tempo, gli azzurri del mare.
Come piovoso inverno è segnale di profonda tristezza, bella primavera avanza speranze sopite, estate è pero’ magia, momento di solitaria confessione di intime sensazioni, privata pausa dall’andare errante nel ditirambo del tempo.
Così avanzi tra sacche di viaggi raccolte controvoglia e ti accorgi di aver smarrito il cammino perché più non ritrovi i riferimenti consueti, ormai segnali dell’essere e dell’apparire, ombre di di un passaggio forse necessario, come il genitore sepolto sotto spessa coltre di antico marmo bianco ormai splendente nella preghiera della sera, o l’incauto amato confidente cui delegavi i pensieri della notte, ormai perduto nella follia di una vigilia d’estate incomprensibile e definitiva.
Come reduce ti affacci sulla tolda di una nave che anche nel nome stravolge la storia, Hufshold, il vichingo che mai avrebbe sognato il caldo mare del peloro, il largo stretto che oggi si ostinano a chiamare di Messina.
Una virgola nella tavolozza dei colori di Nettuno, equoreo sito di favole e di incantesimi, di magia e di perdizione, di contrasti sempre più evidenti tra l’uomo e il mare ormai assopito alle spire della modernità.
Poi continuiamo la commedia dell’estate, ignorandoci nella cordialità di ogni giorno e fingiamo tremori mentre sfila le ore il caleidoscopio di dolce stagione, sopita ormai alla memoria e ancora non ci dice, il tempo, chi siamo.
Eugenio Preta